Sono un pendolare costretto al solito andirivieni da un punto all’altro, casa, lavoro, casa. Un triangolo che dura ormai da molti anni e comporta sacrifici immani per uno che si sta avviando alle soglie della pensione.
Il percorso prevede che, da casa mia alla stazione, si debba percorrere un lungo viale alberato, una strada molto bella, importante, una delle poche attrattive del paese dove abito. Un viale che, dicono, abbia visto in passato passare sotto i suoi alberi le armate di Napoleone, i miliziani di Garibaldi e chissà quanti altri eserciti. Il nostro paese è stato sempre soggetto a dominio da parte di potenze straniere. Infatti, la leggenda dice che l’allargamento della strada, in origine una semplice via sterrata, fu ordinato da uno dei tanti vicerè spagnoli in manie di grandezza. Doveva far ritorno a casa dopo una spedizione militare vittoriosa e decise di far allestire un largo viale per ostentare il suo ingresso trionfale alla maniera degli antichi romani. Voleva entrare in città in pompa magna. Gli architetti fecero del loro meglio e ne venne fuori un corso lungo poco meno di due chilometri, ma deserto ai lati e assolato. Solo in seguito, quando l’epoca dei vicerè finì, un accorto politico decise di far alberare quella strada, per rendere agibile e confortevole quel tratto che collegava il paese alla nuova stazione ferroviaria.
Sono venti anni ormai che percorro quella strada e conosco ogni metro, buca e albero, vedo passare le varie stagioni che si susseguono, una dietro l’altra. L’inverno con gli alberi spogli e i rami contorti come dita supplicanti tese verso il cielo, l’estate quando il fitto fogliame procura zone d’ombra molto piacevoli e adatte per passeggiare, ma è la primavera che dona a quel viale un fascino particolare. Il profumo forte e penetrante dei tigli si avverte anche a distanza notevole: tutti in paese lo sentono. A volte, con il vento a favore, anche i passeggeri dei treni fermi alla stazione.
Negli ultimi anni un nuovo fenomeno sta guastando tutta l’atmosfera del viale.
La presenza degli alberi e la scarsa illuminazione favoriscono la fauna notturna che ha deciso di stabilirsi in quella strada. Con il favore delle tenebre arrivano le lucciole moderne, in prevalenza giovani straniere che hanno la loro postazione vicino agli alberi. Ogni tronco ne protegge una. Le vedo spesso la sera, quando rientro dal lavoro ed è già scuro. Sono come delle falene, le loro nudità eccessive brillano nella notte, appaiono e scompaiono da dietro gli alberi.
Le autorità hanno cercato con ogni mezzo di liberarsi di loro, ma con scarsi risultati.
Vanno via poi ritornano, sono sempre lì ad illuminare la notte, con il biancore della loro carne, provocanti e discinte.
Io percorro quel viale a piedi, in tutte le stagioni, che piova o faccia freddo io devo passarci tutte le sere. Spesso qualcuna si avvicina per farmi delle offerte, l’ultima è accaduta due sere fa. Una ragazza che poteva avere al massimo venti anni, si avvicinò sorridente, non era italiana, una bionda naturale, quel tipo di colore biondo che solo le ragazze dell’Est hanno. L'ascoltai per pura cortesia. In genere sono gentile con tutti, perché non dovevo esserlo con lei, poi gli feci segno con la mano che non era il caso di continuare, non mi sarei fermato per stare con lei. Mi allontanai, ma prima di andare vidi il senso di delusione sul suo viso, fece una smorfia di disgusto verso se stessa, come a rimproverarsi di non essere capace di trattenere un uomo con le sue grazie. Era una ragazzetta dal viso molto truccato che in parte nascondeva i suoi tratti somatici, avevo l’impressione che dietro quella maschera ci fosse una semplice ragazza capitata in quel posto non per sua volontà. Oltre ai capelli di un biondo cenere, il corpo era acerbo, ancora nello stadio giovanile, le forme appena accennate dimostravano la sua giovane età, le gambe nude con nemmeno un grammo di grasso, la pelle bianca, esangue, che non aveva mai visto il sole. Mi chiesi com’era possibile che fosse già su quel viale, a quell'età, quando doveva trovarsi a scuola. La presi in simpatia e tutte le sere quando passavo, se la vedevo libera, le facevo un cenno di saluto.
Venne l’inverno che fu particolarmente gelido, le mie passeggiate lungo il viale si diradarono, venivano a prendermi con la macchina alla stazione e non la vidi per molti giorni.
Una sera che il tempo era discreto e il freddo non eccessivo, feci la strada a piedi. Arrivato nella zona dove lei aveva la sua postazione, la vidi, era avvolta in una finta pelliccia e tentava di riscaldarsi con pochi pezzi di legno messi a bruciare in un bidone. Mi fermai per salutarla e lei accennò un timido sorriso, ma non fece altri gesti verso di me, rimase al suo posto, mi accorsi che la pelle era livida, aveva i brividi di freddo, tremava dalla testa ai piedi, sotto la pelliccia non aveva niente, solo la biancheria intima, il viso era rosso e contratto dal freddo. Non seppi resistere, la presi per un braccio e la condussi verso la stazione. Entrammo nel bar facendo attenzione a non far aprire il suo cappotto per non mostrare le sue nudità e creare problemi. Le ordinai un cappuccino e qualcosa da mangiare. Lei, senza dire una parola, consumò le ordinazioni con avidità, mentre mi guardava con quei suoi grandi occhi, chiari come il cielo d’inverno.
Dopo le feci bere due cordiali per risollevarla, quando mi accorsi che il colorito della pelle era ritornato quello naturale la riaccompagnai al suo posto. La lasciai avviandomi verso casa, mentre lei accennò con lo sguardo un’offerta che rifiutai ancor prima che fosse fatta. Restò in silenzio a capo chino appoggiata all’albero, si stringeva nella sua pelliccia cercando di mantenere quel po’ di calore che aveva ripreso con il mio aiuto. I fari di una macchina che passava le illuminarono il viso, scorsi due lacrime che brillarono nella notte come due stelle.
Dopo quella sera, ebbi occasione altre volte di ripetere quel gesto, cominciava a non avere vergogna di accompagnarmi al bar, una sera particolarmente fredda restammo al chiuso fino a tardi e fu quella volta che riuscì a dirmi il suo nome: si chiamava Irina, d'origine ucraina, aveva diciannove anni ed al suo paese era una studentessa. Le lusinghe di una vita migliore l’avevano persa dietro sogni impossibili ed ora si trovava lì, prigioniera di un destino avverso.
L’arrivo della primavera aveva, di fatto, reso superfluo quel mio genere d'aiuto, ognuno aveva ripreso la propria vita, c’incontravamo sul viale, ma per una sorta di pudore reciproco facevamo finta di non conoscerci. Io ero un lavoratore pendolare che andava avanti e indietro dal paese alla città, lei era una di quelle che passeggiava avanti e indietro sul viale alberato, calpestando i suoi sogni di ragazza nel profumo inebriante dei tigli.