Non avevo detto niente a nessuno, o meglio, avevo giusto avvisato i miei che sarei andato a fare visita ad un'amica.
Presi la macchina e andai in quel luogo della mia infanzia a cui ero molto legato. Ci andavo spesso da ragazzo, era quasi una tappa obbligatoria quando si arrivava e quando si ripartiva dalle vacanze estive.
È un paesino marittimo sul versante orientale della Sardegna. Il suo nome non era molto diverso da quello di ora, gli abitanti del luogo fanno riferimento alla parola dialettale che richiama all'"intestino, il budello." Strano come il mio intestino in quel momento fosse congestionato. Questo perché ho il brutto vizio di prendere le cose di pancia; in questo caso sono le incazzature, che in questo periodo non sono poche.
Speravo che quel luogo che avevo conosciuto nel periodo d'oro della mia giovinezza, riuscisse in qualche modo a sbrogliare questo mio mal di pancia.
Arrivato, parcheggiai la macchina e mi diressi a piedi verso Capo Falcone. Da lì si poteva osservare il mare aperto con le sue grandi onde, una finestra su quel blu che mai riposa, chissà magari mi avrebbe fatto bene e mi sarei calmato.
Niente da fare. Rimuginai ancora di più e l’incazzo non mi era passato.
Ero stanco di molte cose, camminavo verso la mia destinazione guardandomi la punta delle scarpe e mentre tutto il caos dentro o fuori di me si apparecchiava sulla strada sterrata. Ogni tanto un calcio a qualche pietra fino a quando non sentii il tuono del mare. La giornata era ventosa e fredda nonostante fosse metà maggio, anche il tempo faceva le bizze.
Avevo lacrime in attesa dietro il bulbo oculare, ma erano ostinate, si rifiutavano di venir fuori. Finalmente arrivai allo spiazzo dove mia madre si fermava spesso con la macchina, questo prima che chiudessero la strada ai veicoli.
Il vento era più forte ora (volevo urlare), mi stampava la maglietta sul torace (avrei voluto strapparla quella maglietta e gettarla al vento che mi urlava nelle orecchie), sembrava che tutto fosse diventato un estensione del clima che avevo dentro. Le onde erano gonfie di rabbia e andavano a infrangere il loro furore contro gli scogli in una deflagrazione che portava alle mie labbra la salsedine: la gustavo, la respiravo mentre grossi nuvoloni carichi di pioggia si addensavano all’orizzonte, neri e gravosi come il mio spirito, avrei voluto urlare contro tutto e tutti talmente tanta era la rabbia che mi ruggiva dentro e le mie lacrime ancora non si decidevano a venire fuori.
C'era una gabbiano che non riusciva a raggiungere la costa, il maestrale si era fatto più insidioso, le raffiche di vento lo costringevano ripetutamente a tornare sui suoi passi, per quanto guadagnasse terreno non riusciva ad atterrare. Anche lui era stanco e urlava contro il vento, senza mai arrendersi. Forse dovrei fare anch’io come lui, urlare contro quel vento che mi riportava sempre al punto di partenza? A quale scopo? Sentivo le lacrime prendersi gioco di me: ‘"usciremo quando capirai"’, sembravano volermi dire.
Quando capirò? Capire cosa?
Mi salì la collera dalla profondità dello stomaco. Capire cosa? A quale scopo? Perché, perché, perché, perché?
Raccolsi una pietra da terra e con tutta la forza che avevo in corpo la scagliai verso il mare urlando contro il vento: Perché devo...? e la prima lacrima venne fuori, il vento la stirò lungo gli zigomi asciugandola, lasciando una striscia di salmastro dolore, come una ferita che veniva aperta o forse che veniva sanata.
Perché sei...? e scagliai la seconda pietra e insieme a lei giunse la seconda lacrima. Sentivo il fuoco e l’acqua e il sangue che diventava burrasca nel cuore.
Perché sono...? e lanciai un’altra pietra verso quel mare scuro in tumulto, urlai come il vento che non trova pace, ogni pietra che lanciavo era un tuono che mi sconvolgeva le interiora.
Scagliai molte pietre e urlai come un indemoniato. Fuoco e acqua. Ma io non sono il mare, ne l’acqua, ne il sale. Mi ritrovai inginocchiato a terra in preda agli sconvolgimenti del mio cuore, caddi disteso e piansi tutto quello che c'era da piangere, ripulendomi l’anima.
Ripetei ancora una volta dentro di me: Perché?
Perché tu sei il gabbiano...
Una voce dentro di me pronunciò queste parole. Era la mia voce, solo molto più profonda, come se nascesse dall'abisso. Distante, eppure così vicina, chiara e forte.
Il vento continuava a fischiarmi nelle orecchie.
Tu sei il gabbiano... Ripeteva.
Poco dopo sentii la voce del gabbiano. Era riuscito ad atterrare e ora dal suo scoglio mi guardava, pareva sorridermi. Col suo passo ondulato, venne verso di me.
Tu sei il gabbiano... Ripeteva ancora quella voce.
Io sono il gabbiano, ripetei molte volte fino a convincermi.
E puoi volare... riprese la voce.
E posso volare!
Mi alzai da terra e allargai le braccia. Sentii il vento pervadere il mio corpo, il mio sangue, respirai l’aria salmastra, chiusi gli occhi e volai, ogni cosa scomparve, non avevo più pesi sullo stomaco, stavo vibrando e mi riempii d'immenso.
Quando ritornai ad aprire gli occhi, il vento era calato, le nubi se n’erano andate e il tramonto copriva d'oro ogni cosa.
Il gabbiano era ancora lì, vicino a me, si volse a guardarmi poi, spiegò le ali e volò via verso il tramonto dorato.
E adesso: Vola! disse la voce.
Ripresi le mie cose e tornai alla macchina. Sapevo ciò che dovevo fare.
Santiago Montrés