– Facciamo al solito? –, mi chiede Pino dallo specchio, dietro i suoi occhialini rotondi alla Camillo Benso.
– Sì, sì –, rispondo io, non molto convito.
D’altronde non potrei opporre resistenza, infagottato come sono nella camicia di forza un po’ lasca usata abitualmente dai barbieri.
A conferma del vecchio detto “il ciabattino va con le scarpe rotte”, la testa di Pino sembra un cespuglio incolto, dove si avviticchiano riccioli anarchici, sale e pepe, che gli conferiscono una vaga somiglianza a Bruno Lauzi. Lui però non canta. In compenso, come tutti i barbieri, parla.
Amilcare, in attesa del suo turno, incomincia l’abituale dissertazione calcistica sul match d’andata trasmesso alla tivvù la sera prima.
– Guardate che proprio non si poteva non interrompere una partita così. Il campo faceva proprio schifo! –
– Vabbè, l’arbitro ha detto che si poteva continuare. –, risponde Giulio, cogliendo al volo l’inatteso assist.
– Ma che continuare. L’arbitro deve fare l’arbitro, non la primadonna. –
– Perché, lo conosci meglio tu il regolamento? –
Mi sono sempre chiesto che cosa vengano a farsi tagliare, quei due anzianotti mezzi pelati. Probabilmente, più che dalla mano di Pino, sono allettati dalla lettura gratis dei quotidiani, con particolare predilezione per quello dai fogli rosati che, come loro, ogni giorno sproloquia di calcio; sicuramente non dalle riviste ammonticchiate sul tavolino, reperti del mesozoico le cui pagine ormai non più lucide continuano a disvelare inutili gesta amorose d’appannati vips.
– Tant’è che si sono fatti male in due. Il prato sembrava una cava di fango. Con tutta quella pioggia… –, interviene Pino a conclusione del dibattito sulla partita.
Le sue forbici cinguettanti esplorano la mia capigliatura e le prime ciocche scivolano sul lenzuolo bianco. L’ornamento che mi rende così fiero (ho ancora una massa di capelli ben folta) in un attimo diventa rifiuto. Osservando il risultato della mia toelettatura, penso a come accada lo stesso con quasi tutti gli oggetti usati da un uomo, dopo la sua dipartita e la conseguente perdita della qualifica di legittimo possessore. Per quanto comode o di buona fattura, chi calzerebbe le scarpe di un morto? Chi userebbe il suo pettine o il suo astuccio degli occhiali? Di colpo, come i capelli tagliati, gli oggetti tanto cari diventano scarto, inutile ciarpame. Suscitano più ribrezzo e voglia di disfarsene che nostalgico ricordo.
– Lo volete un caffè? –, questiona Pino.
L’uditorio, improvvisamente dimentico d’ogni antagonismo, accoglie l’invito conciliatore con esultanza. Pino posa pettine e forbici, apre la porta del negozio, si sporge e fischia mettendosi due dita in bocca. Dal lato opposto della strada, dal bar spunta un giovane con un grembiule. Il Lauzi che non canta ma che fischia alza la mano mostrando quattro dita ben dritte. No, esse non alludono ai peli rimasti in testa a Giulio, bensì al numero dei caffè ordinati.
La pausa ristoratrice lascia una traccia d’aroma tostato che si confonde con gli effluvi di talco e di dopobarba. Pino riprende la sua opera con gesti di premura e di protezione: mi aggiusta il bavaglio intorno al collo e mi sposta delicatamente la testa da un lato e dall’altro per meglio compiere la sua opera di cesello.
– E voi, avete incominciato a fare l’orto? –, chiede Pino ai due in attesa.
– Io ho messo i pomodori, ma tutta quest’acqua li ha annegati. –
– È troppo presto, bisogna aspettare la luna nuova. –, risponde Amilcare a Giulio, e si lancia in una spiegazione sulle fasi satellitari degna di Frate Indovino.
La stirpe degli acconciatori e di tutti quelli che manipolano il cuoio capelluto possiede un repertorio retorico, senza dubbio trasmesso per metempsicosi, che spazia dalla politica ai motori, dall’agricoltura all’amministrazione pubblica, con una particolare predilezione per i giochi sportivi. Lo scibile dei coiffeur si accresce e si farcisce anche grazie alla competenza degli assidui frequentatori del Barber shop. Il salone del barbiere è l’università dove si formano le opinioni e prendono vita sempre nuove dottrine filosofiche. L’analogo istituto femminile, il “parrucchiere”, snobbato dai maschi in eccesso di peli, è da questi ultimi declassato al rango di scuola secondaria di gossip e sala di ricreazione per signore bisognose d’effimera bellezza.
Mentre alle mie spalle la discussione sulle virtù dell’ortolano assume toni da trattato universale agrario, il ticchettio implacabile delle forbici mi culla, simile al ritmo di una macchina per scrivere. Mi assopisco e dimentico me stesso, cullato dal pettine che frulla intorno alla mia testa e dal soffio tiepido del fon sapientemente dosato.
– Ecco fatto! –, esclama Pino riportandomi al mondo dei viventi con leggeri colpi di spazzola che fanno volar via gli ultimi residui del taglio.
Mi guardo allo specchio e mi vedo un po’ sfocato. Con affettata sollecitudine il barbiere mi porge gli occhiali e si piazza di dietro con uno specchio portatile per mostrarmi tutto tronfio il frutto della sua arte.
È in quel momento che scopro, riflessa nel vetro, una testa ben composta, impomatata da appena un filo di gel (così almeno assicura Pino). Mi sembro Ken, il fidanzato di Barbie, piantato in asso dall’avvenente bambolina. Non glielo posso proprio dire a Pino, che mi sarei aspettato qualcos’altro. Sarebbe indelicato mortificare il suo entusiasmo dicendogli: – Un po’ più corti va bene, ma così sembro davvero un manichino! –
Così sorrido e acconsento con un cenno del capo. D’altra parte è paradossale andare dal barbiere e sperare di uscirne con l’aspetto di uno che non ci è andato.