È il 27 ottobre del 2020. Tempo di Covid.
La tv mostra continuamente belle donne con il volto e i capelli rischiarati da decine di filtri digitali che fanno il broncetto in solidarietà ai manifestanti di Napoli, i quali non vogliono chiudere le loro attività per malattia.
Come potrebbero sopravvivere? Come si può andare avanti senza denaro?
Perché? Non si può andare avanti senza denaro?
La politica di tutto il mondo cerca di salvare capre e cavoli, la vita degli esseri umani da una parte e i conti in tasca di tutti dall’altra. Ma le due cose sembrano non collimare.
Per salvare la vita ci vogliono soldi e rinunce e per salvare i conti ci vogliono soldi e rischi.
I soldi ci vogliono sempre. I soldi li vogliono tutti, ma le rinunce e i rischi non li vorrebbe nessuno.
È la propaganda di secoli, secondo me, che non fa quadrare la situazione.
Io ho 45 anni, non tanti, ma abbastanza per dire: da quando ero piccola.
Da quando ero piccola ho sempre sentito dire che i soldi sono ciò che serve per poter stare bene.
Parole come guadagno, risparmio, interesse, conto in banca, raccolta fondi, vincita alla lotteria, diventare ricchi sono come state delle molecole non fisiche dell’aria che respiriamo. L’aria: la cosa più importante.
Poi mi hanno fatto leggere il Vangelo, parola di Gesù. Gesù mi veniva proposto come il maestro universale, unico e vero, il più sapiente di tutti, il giusto per eccellenza, il migliore coach di vita di sempre per usare un linguaggio moderno.
Ero piccola e ci ho creduto. E credevo che tutti ci credessero. Mi piaceva e mi piace tutt’oggi, Gesù, e credevo che a tutti piacesse.
Gesù, si sa, ce l’aveva un po’ su coi ricchi. Una sua frase mi riecheggia riassuntiva di tutto il resto: “Gratuitamente ricevete, gratuitamente date”. Ovvero: condividete, regalatevi, scambiatevi, prestatevi, aiutatevi, senza chiedere nulla in cambio. E questa filosofia di 2000 anni per me era giustissima solo perché detta Gesù, ma anche perché la trovavo una figata (poter contare gli uni sugli altri senza pretese e senza rinfacciare per me era e resta una figata), ma strideva con il mio mondo contemporaneo.
La gente non faceva altro che chiedere il tornaconto personale per qualsiasi cosa, tornaconto materiale o di lode e popolarità.
Alla gente non importava niente di Gesù, se non per chiedere a sua madre, chissà perché non a lui direttamente, di presentargli qualche richiesta di guarigione miracolosa.
Gesù andava bene per la salute ma non per l’economia.
Al mondo bisogna diventare ricchi, o per lo meno aumentare il più possibile la propria disponibilità di denaro.
Io non l’ho mai capito. Non ho mai capito perché non si può scegliere di essere poveri. La povertà si guarda come a una sfortuna non come una possibilità. La povertà è come uno spauracchio di vite orribili fatte di stenti e disgrazia. Davanti alla povertà ci si agita, ci si ribella, la povertà di oggi viene paragonata alla fame di ieri, anche se, onestamente, non è proprio la stessa cosa.
La cultura imperante dichiara: vi aiuteremo, vi faremo avere i soldi, troveremo i soldi, si parla di milioni di miliardi di euro, sono stanziati, ci sono quasi, ci saranno, ve li daremo, avrete i soldi, i soldi, i soldi... Ma i soldi non ci sono, perché lo stato i soldi li prende dalla gente, ma la gente i soldi non li ha, come fa a darli per poi riaverli? Non avrebbe più senso non darli affatto?
I toni della cultura imperante sono inadatti a tenere calmo il popolo, che ha paura di morire di povertà più che di morire di malattia.
Il popolo è educato a credere con tutto il suo essere che il guadagno di denaro sia la cosa più importante e necessaria della vita, un popolo che è disposto a vendere parti del corpo per denaro, un popolo che su espressioni, detti di vecchi saggi scemi che a un passo dalla morte han capito come tutto sia vacuo, come “l’importante è la salute”; “solo alla morte non c’è rimedio”; “con l’amore si supera tutto”; ci pisciano sopra. Prima vengono i soldi. Senza i soldi non c’è salute, non c’è rimedio, non c’è amore.
In realtà non è vero. Ma non si può dire.
La culturale imperante non può cambiare, per l’incapacità connaturale alle menti di modificare convinzioni profonde, o per il volere di qualche entità, un super influecer incognito per usare un linguaggio moderno, che non vuole che la gente sappia che senza soldi può vivere.
I toni della propaganda in questi tempi, dove la malattia fa meno paura dell’impossibilità di gozzovigliare, dovrebbero avere il coraggio di sfoderare un po’di umanità.
L’umanità è imbarazzante. Nessuno si vuole imbarazzare. Specialmente quando sta in piedi in pubblico tutto elegante con un discorsetto scritto a puntino per fare proclami in modo molo serio.
Eppure bisognerebbe secondo me usarle queste parole sentimentali. Avere il coraggio di togliersi la giacca, e dire sospirando: “Non dipende da noi, dobbiamo pazientare. Non possiamo decidere quando la malattia scomparirà perché è un fatto fisico e la fisica non dipende dall’ uomo, l’uomo la può osservare e cercare di dirottarla in qualche modo, ma ne è comunque succube. Bisogna portare pazienza, capire che è un periodo in cui non si può vivere per guadagnare, per fare mercato e divertirsi. Le nostre forze siano tutte nella ricerca di una cura, del vaccino, di antivirali e la cura di chi si ammala gravemente. Arginare il numero dei morti e dei malati deve essere il desiderio di tutti, forse a voi sta più a cuore poter andare al centro commerciale piuttosto che non vedere vostra madre morire?"
E poi… utopia delle utopie…
“I soldi non ci sono! Dobbiamo fare per un po’ senza. Finché la malattia la farà da padrona sospendiamo non solo tutte le attività, ma anche tutte le spese. Niente bollette, niente affitti, niente tasse, fino a quando non ci saranno tempi migliori. Tutti dobbiamo rinunciare a qualcosa. Chi deve lavorare lo faccia gratis se può, o dimezzi il credito, portiamo pazienza, sacrifichiamoci per il bene comune nostro e dei nostri non solo connazionali ma fratelli.”
Una propaganda diversa che punti al benessere dell’altro più che al proprio, che punti di più allo stare il meno male possibile più che al meglio possibile, che punti all’accontentarsi più che al lamentarsi. Mettere l’amicizia, intesa come amore per l’altro, prima dello star bene inteso come potersi permettere una bella vita, toni di propaganda che usino parole antiche come fratellanza anziché solidarietà, pietà anziché tolleranza, umiltà anziché semplicità, che usino parole che fanno vergogna perché generano in noi un senso strano di debolezza e obbligo di condivisione che vorremmo dimenticare per goderci la vita.
Sarà mai possibile una cultura del genere?
Pensateci, ci sono due tipi di godimento: mangiare una torta intera da solo, o mangiarne una parte minore in buona compagnia.
Non esiste una scelta migliore dell’altra. È questione di gusti. C’è chi preferisce mangiare e chi preferisce la compagnia. A ciascuno la scelta. Senza che la prima prevarichi la seconda come sembra succedere oggi.