Le vecchie case hanno un odore tranquillizzante. Modeste e squadrate, nessuno vi fa caso né le osserva con l’invidia di chi sogna una bella abitazione. Resistono inosservate per moltissimo tempo finché un escavatore non le demolisce per far posto a un palazzone nuovo di zecca. L’infanzia di Mario è trascorsa in una di queste, lasciandogli una nostalgia che si è depositata nel suo cuore come sabbia in fondo al mare. Le più antiche hanno forme strampalate, costruite per assecondare il tracciato di un vicolo o di una mulattiera, strette le une alle altre come pecore nell’ovile, legate da tiranti di ferro, con le chiavi in bella vista sui muri esterni in pietra. In genere custodiscono pochi minuscoli appartamenti ristrutturati mille volte da sempre nuovi inquilini.
L’entrata è un portone cigolante che si apre su un corridoio stretto e poco illuminato, piastrellato con mattonelle rosse di fattura ormai desueta o con graniglie rese opache dall’usura e dai troppi lavaggi a base di acqua e varechina. A volte c’è una scala che s’inerpica su uno o due piani, con i gradini d’ardesia o di marmo un tempo bianco ma ora ingrigito, sbeccati in qualche punto e arrotondati nel mezzo, dove il calpestio li ha maggiormente consumati. Mai un ascensore, lusso riservato al benessere di magioni più ricche. I muri interni esibiscono diverse mani di pittura data al pennello, alla buona, che si sfarina nei punti in cui affiora un po’ d’umidità o dove mobili e cartoni ingombranti, trasportati su e giù in occasione di passati traslochi, li hanno graffiati lasciandovi cicatrici profonde.
Mario se li ricorda bene i vecchi caseggiati del paesino dov’è stato bambino. Vi si sono date il cambio diverse generazioni e ancora oggi è normale incontrarvi insieme anziani, indefessi scalatori aggrappati al mancorrente di legno deformato, e bambini che strofinano gli scalini col sedere facendovi correre macchinine di metallo. Gli adulti sono sempre troppo occupati a guadagnarsi da vivere per trovar tempo da dedicare alla manutenzione.
Dalle finestre aleggiano odori di minestra o di soffritto di cipolle, misti a quello di lavanda del detersivo in polvere di un fustino cartonato. È raro percepire odori sgradevoli. Nelle vecchie case non si butta via niente, o almeno il minimo indispensabile. C’è odore di famiglia, odore di persone buone.
Gli androni dei palazzi moderni, invece, non hanno un’aria invitante. C’è sempre un largo portone di vetro con la serratura elettrica. Quando si chiude da sé, spinto da un meccanismo automatico, fa un rumore assordante. All’entrata non si trovano damigiane appoggiate di lato, né biciclette pronte a partire verso chissà dove, e quello spazio vuoto trasmette un senso d’assenza organizzata. In quelli più presuntuosi si trova a volte, alla base dello scalone centrale, una finta aiuola con fiori di plastica che la donna delle pulizie dimentica sempre di spolverare. In rari momenti un visitatore occasionale non potrebbe veramente dire che ci sia un cattivo odore, tranne quando qualche topo va a morire nella tromba dell’ascensore provocando, con il suo gesto proditorio, le rimostranze dei condòmini i quali, nulla potendo contro la morte, se la prendono con l’amministratore mai abbastanza sollecito nel risolvere il problema.
Gli olezzi che vi si avvicendano sono sempre rivelatori di qualche attività umana che però sorprendono in modo irregolare e disarmonico: odori d’olio fritto, puzza di cane di un inquilino, effluvi imprecisati ma molesti emanati da un appartamento, il fumo freddo di sigaretta, fetore di fognatura, per non parlare dei tubi di scappamento delle auto i cui gas filtrano all’interno dalle fessure del portone a vetri.
Più che una pace operosa, gli odori di un condominio proclamano la diffidenza di fazioni assopite in un armistizio armato. Inoltre, i sacchetti della spazzatura ammonticchiati nel seminterrato rivelano l’insipienza o la grandezza degli ospiti del caseggiato, tradendone i vizi e le bassezze. Ognuno di loro, comunque, si pretende speciale e insostituibile.
Le pattumiere, allineate contro il muro dell’apposito locale segnalato dal regolamento affisso sulla sua porta, sono l’unico luogo dove possano fondersi in un meticciato autorizzato gli esiti di attività quotidiane straniere e ostili. Quei bidoni sporchi sono i soli testimoni dell’intimità di persone apparentate unicamente dal luogo in cui vivono. Ciò che non fluisce nella cloaca degli scarti corporei, scomparendo convenientemente alla vista, viene riunito in contenitori che osservano crescere e trasformarsi le sorti umane. Giorno dopo giorno, la razionalità apparente che ne separa gli avanzi rivela la sempiterna e vana ambizione di stabilire ordine, gerarchia e senso al rimescolamento indistinto dell’esistenza, prima e dopo la sua fruizione, scandendo la successione del tempo con nuovi involucri, grigi, gialli o neri seguendo un’imposizione aliena eppure taumaturgica.
Il secchio della spazzatura è il vero cronometro umano, il suo assoluto mausoleo.