La seconda perché mi imbattei in alcuni quaderni di bambini, sicuramente suoi alunni.
Su questi fogli scritti con l’inchiostro, pagine intere di A, di B e cosi via. Su di uno di questi, nell’ultima pagina scritto piccolino, piccolino, come per voler conservare il segreto una frase:
Tommaso AMA Annachiara.
Salii la vecchia scala, mentre il sole perforava il tetto ormai malconcio e tutto da rifare. I suoi raggi segnavano i gradini e mi indicavano la via.
Nel piano superiore un paio di camere da letto anch’esse vuote.
Solo la cameretta in fondo al corridoio aveva al suo interno ancora una vecchia culla. Mi avvicinai con curiosità e guardando meglio notai un lembo ormai consumato di stoffa con su impresso un nome.
Sofia.
Ebbi un balzo al cuore.
La nonna aveva conservato il lettino dove avevo dormito da piccola.
Mi misi seduta sul pavimento, sfiorando con la mano destra quel lembo di stoffa, come se fossi alla ricerca di una ultima carezza di quella splendida donna.
Una lacrima mi percorse il viso, impedendomi la vista per un attimo.
Mi rialzai ancora un po’ scossa e non mi accorsi dell’ostacolo
davanti a me.
Picchiai la punta del piede e urlai così forte che presi a saltellare con la gamba sana avvicinando l’altra al petto tenendola con le braccia.
Una cassapanca aveva interrotto la mia perlustrazione.
Tornai giù cercando dell’acqua che mi permettesse di bagnare il piede. L’unico rubinetto che trovai sgorgò solo due gocce.
Mi sedetti per circa mezz'ora e quando iniziai a stare meglio, anche la mia curiosità era andata aumentando.
Quella cassapanca aveva voluto attirare la mia attenzione.
Ne forzai la serratura.
Al suo interno sembrava che la nonna avesse voluto mettere tutti i ricordi suoi.
Un baule pronto ad essere portato via, se fosse mai avvenuto un diluvio universale.
Nel primo strato una serie di vestiti d’epoca molto belli, ancora morbidi al tatto, ma che avrebbero avuto bisogno di arieggiare.
Ne trovai uno anche del nonno, una giacca marrone di fustagno.
Nel secondo strato vari album di famiglia, foto in bianco e nero che fissavano attimi di vita. Trovai anche qualche mia foto.
Foto che non possedevo e forse neanche i miei avevano avuto e portato con loro quando erano emigrati.
Ero intenta su quella, con un vestitino a fiori che ricordo ancora, cortissimo, che mi mostrava tutte le gambe rovinate dai giochi infantili, e con un faccino vispo pronto a combinare la prossima marachella.
Nell’ultimo strato, come per difenderli alla vista indiscreta, dei cofanetti racchiudevano varie gioie e camei, di cui la nonna era, nella sua femminilità, raccoglitrice.
Richiusi la cassapanca con animo turbato ma fiero.
Lì dentro c’era una fetta della mia vita.
Non volevo sciupare niente e soprattutto non volevo avere fretta.
Trascorsi quei giorni come farebbe una investigatrice.
Cercando, scrutando, sfogliando.
Quando invece ero fuori nel giardino dove vicino scorreva il torrente, ero in piena estasi.
Annusavo, ascoltavo, divagavo con il pensiero.
Sembrava quasi che davanti a me si materializzassero le figure a me care, e io spettatrice.
Avevo trovato da dormire in un vicino alberghetto detto “La locanda del Berlingaccio”.
Qui una coppia gestiva il locale ma se anche non avevano notizie alcuna in merito alla mia parentela, erano delle persone gradevolissime.
Cucinavano inoltre delle pappardelle all’aretina con fegatini che facevano trasalire i morti.
Erano passati ormai dieci giorni.
Ma il legame per quella terra e per le mie origini erano ogni giorno sempre più prepotenti.
Convinsi il mio capo ad avere ancora dei giorni di ferie e spostai il mio biglietto di aereo.
Fu meno contento il mio compagno. Gli mancavo davvero tanto e anche lui a me.
Ma avevo ancora qualcosa da sistemare.
Inforcai la bicicletta che avevo trovato nel capanno vicino.
Lungo la strada raccolsi dei bellissimi fiori di campo.
Il cimitero era un piccolo cimitero di provincia.
Cercai tra le tombe e la trovai.
La nonna Marilena era li. In una piccola tomba bianca.
Cambiai subito i vecchi fiori ormai secchi e ne misi di appena raccolti.
Sembrava subito dopo che il suo volto sorridente fosse ancora più illuminato.
Bastarono dieci minuti per poterle raccontare di me e ringraziarla.
Quando tornai con la bici senza alcuna fretta, facendo tutte quelle salite e discese, a ogni metro mi innamoravo sempre di più di quel luogo.
Appena arrivai chiamai James.
Fu tale il mio fervore nel raccontargli che fece sue le mie parole.
Avremmo sistemato il casolare un po’ alla volta.
Tornai a casa in aereo col viso incollato al finestrino e il mio cuore che era rimasto a terra.
Passammo delle vacanze estive magnifiche, anche con i ragazzi.
Ma da quel maledetto rubinetto non venne mai fuori l’acqua.