«Trenta minuti in scena!»
Non sento, ma so che dietro le quinte hanno dato il via, i nostri orologi sono sincronizzati con quello della regista.
Mi trovo dietro l’ultima fila della platea, proprio sotto la regia, qui rimarrò fino alla fine di questa serata e di molte altre, come ho sempre fatto.
Ogni volta, quando dopo mesi si arriva finalmente al debutto, mi pongo sempre la solita domanda: “Chi me lo fa fare?”.
Proprio così. Cosa mi spinge a trasformare il mio tempo libero in lunghe serate di prove dopo una giornata di lavoro.
Cosa mi obbliga a soffrire di questa strana sensazione alla bocca dello stomaco. Una piccola massa rigida via via sale, si ferma tra cuore e gola, palpitando al tempo dettato dalla circolazione sanguigna, poi prende il sopravvento, decide il ritmo cardiaco, controlla l’uscita dell’aria dai polmoni e così il mio respiro.
Cos’è che mi spinge ogni volta a dimenticare la tensione e il panico e a ricominciare da capo.
Ferma, guardo il teatro ancora vuoto, chiudo gli occhi e cerco di ritrovare un respiro calmo e naturale.
La compagnia al completo ha dato da poco luogo al suo rituale magico sul palco. Segreto, sempre perfettamente uguale: stessi gesti, stesse parole. Un rito scaramantico, perché si sa gli artisti son superstiziosi.
Il sipario protegge, fino all’inizio dello spettacolo, la scenografia da occhi indiscreti, mentre gusto gli ultimi attimi con me stessa prima che venga fatto entrare il pubblico.
L’energia della prova generale pervade ancora la sala, quell’energia pronta ad esplodere, cullata dal silenzio, prima della deflagrazione.
Al di là delle porte, a pochi metri da me, la gente è in attesa, il brusio assordante. Loro sono tranquilli, si accomoderanno sulle loro poltroncine e si gusteranno lo spettacolo, liberi di apprezzarlo o meno, ma io no.
Io sarò dietro l’ultima fila e mi muoverò avanti e indietro, fermandomi nelle pause tra una battuta e l’altra e ricominciando a camminare, mentre il dialogo avrà luogo.
Avanti e indietro, ripetendo col solo movimento delle labbra ogni parola. Ancora avanti e indietro, sperando che il pubblico si diverta, sorrida e aspettando l’applauso che sancisce il suo assenso. Quell’applauso che ripaga di ogni sacrificio.
“Chi me lo fa fare” penso per l’ennesima volta respirando lentamente, mentendo a me stessa. Fingo di non sapere, ma conosco fin troppo bene quella forza d’attrazione che mi guida ogni volta verso la parola scritta, la storia da raccontare. Quella sensazione inebriante quando la larva si introduce nella mente attraverso i sensi innescando un ricordo, una sensazione, fino a quel tuffo al cuore al quale non rinuncerei mai: l’idea.
Dopodiché non son più io a guidare il gioco, è l’idea che fa di me ciò che vuole e cresce, si spande a macchia d’olio, si dirama, diventa incontenibile e non mi rimane che essere un semplice esecutore. Schiava fino alla parola “fine”.
Attrazione ipnotica, bisogno sanguigno, fisico, linfa che mi nutre. Non potrei farne a meno, mai.
«Venti minuti in scena!» guardo l’ora e mi sembra di sentirle quelle parole nei camerini.
Gli attori sono pronti, è come se li scorgessi attraverso il sipario che se ne sta morbidamente chiuso, mentre si scambiano gli ultimi sguardi di complicità, si controllano a vicenda, ripetono le battute più difficili, le entrate e le uscite. Sento il battito dei loro cuori da qui, il loro sangue pulsare adrenalina pura. La platea e i ruoli ci dividono, ma le sensazioni sono identiche. Loro sul palco a dar vita ai personaggi, io qui sul mio palco segreto, invisibile a tutti, mentre guardo i miei personaggi prendere vita.
Le porte si aprono e l’alta marea di volti sconosciuti si allunga, conquistando i posti migliori. Così la gente occupa il teatro, prima formando macchie qua e là, poi conquistandolo del tutto.
Non rimane che il mio singolo posto, dietro l’ultima fila. Da qui potrò saggiare direttamente le reazioni del pubblico, tastarne l’umore, captarne lo stato d’animo.
«Dieci minuti in scena!» il tempo non perdona e continua il suo inesorabile cammino verso l’ora decisa per l’inizio dello spettacolo. Ormai non posso tornare indietro, è fatta.
Anche gli ultimi posti vuoti sono stati occupati e ancora una volta mi chiedo “chi me lo fa fare di soffrire così” e sorrido fra me, mentre non posso fare a meno di chiedermi se coglierà la mia ironia questo pubblico che non è mai uguale ogni sera, se capirà il messaggio criptato dietro ai dialoghi, solo all’apparenza casuali. Chissà se sarò capace di essere all’altezza.
Avanti e indietro con le braccia incrociate al petto per difendermi da tutta questa emozione che è più forte di me e che non ne vuole sapere di lasciarmi stare.
Si spengono le luci di mezza sala prima, tutte le altre poi.
È buio, la musica trascina l’attenzione, un fascio di luce abbagliante ipnotizza lo sguardo del pubblico, filtrando dal sipario che lentamente si apre. È teatro.