Ero all’Università in quegli anni.
Studiavo Psicologia e frequentavo il terzo anno.
Sostenevo con fatica ma altrettanta caparbietà gli esami.
La passione per la materia e per tutto quello che la circondava riusciva a sopperire a tutti i sacrifici e tribolate giornaliere.
Non avevo casa in città perché le condizioni economiche dei miei genitori non erano tra le più floride.
Ero la loro unica, piccola figliola, avuta in tarda età.
Mia mamma Ester mi aveva avuto a quarant’anni suonati.
Me lo diceva sempre: ”Tu Flora sei stata il segno del signore”
E nel frattempo sgranava il rosario.
Io apprezzavo, ma contenevo la gioia.
Una differenza di età così ampia tra genitori e figli porta in modo irrimediabile a conflitti generazionali.
Certo, ero e sono piuttosto tranquilla come ragazza, ma un ma c’è.
Un ma di condivisione, un ma di esperienze insieme, un ma di complicità che mi erano mancate.
Inoltre la loro origine contadina non aveva facilitato le cose.
C’è anche un però.
Però mi hanno amata, però c’erano sempre con la loro semplicità, però il loro essere così ha fatto di me una donna forte.
Questi pensieri occupavano appieno la mia mente in quei giorni.
Non so esattamente dove volessi andare a parare, ma io sono stata sempre quella delle mille domande e guai a non avere mille e una risposta…
Come dicevo poco innanzi, per andare in città usavo la corriera, in quanto Flora al volante equivaleva a uscire nella prima edizione del telegiornale “Firenze News” per scampato massacro.
Usavo quasi sempre la stessa linea, la 28.
Ma quel giorno, sotto la pensilina ad attendere il suo arrivo, rimasi per non poco tempo.
Dopo aver picchiettato con le mani il vetro a cui ero appoggiata, dopo aver guardato il cielo cambiare più volte colore, dopo aver tolto uno stivale per grattarmi sotto il piede, sentii lo sbuffare di un automezzo che arrancava sulla salita, pronto a inforcare la curva a gomito: una corriera stava per fare il suo ingresso trionfale nella piazzetta del paese.
Guardai verso il conducente in cerca del numero posto esattamente a pochi decimetri dal suo capo.
23!
Non era il mio. Accidenti. Dove accidenti si è ficcato il vecchio Gustavo?
La frenata del mezzo si sentì fino agli Appennini. La porta si aprì in un sinistro rumore di ferraglia e una testa riccia fece capolino.
Mi guardò e mi disse: -Oh bella uagliona, scusate il ritardo. È la mia prima giornata di lavoro e ancora non mi ci raccapezzo in mezzo a tutte queste colline.-
Io lo guardai con faccia altrettanto stralunata.
“E questo chi è? Che ci fa un napoletano a Firenze al posto di Gustavo?”
-Allora signuri’,che fate salite?-
-Un momento, con calma. Io sto aspettando la corriera numero 28 e non la 23, per piacere.-
-Ma allora vui nunne sapite niente. È stata soppiantata. Nunne esiste chiù. Mò, c’e’ so io.-
-Ascolti, una cosa alla volta. Le spiego.-
-Ma non mi dia del lei, io so’ Gennaro.-
-Ma quale tu e tu. Io voglio solo andare a Firenze e basta.-
-E allora facimmo accussi’ signuri’. Voi salite e io a Firenze vi ci porto, almeno penso.-
-Come, almeno penso?-
-Scherzo,sto’ pazzianno. Salga pure, altrimenti agli altri passeggeri che ci racconto, che nà pazza non vuole salire sull’autobbus solo perchè è cagnato ù nummer-
-Pazza a me? Gennaro o come diavolo si chiama lei, io salgo, ma al nostro arrivo lei non la passerà liscia.-
-E va’ buò, ma intanto salite.-
Inviperita come poche salii di fretta e mi sedetti nell’ultima fila, per tutto il tragitto tenni la testa bassa per evitare lo sguardo di quel maleducato, che invece era così impertinente da guardare nello specchietto verso di me.
Arrivata in città volai fuori dalla corriera, ripromettendomi di non incontrare mai più quell’idiota.
Passarono alcuni giorni, ma quel giovedì la corriera 23 con Gennaro si presentò alle 7 puntuale come le linee ferroviarie giapponesi.
Salii con diffidenza, ma Gennaro, precedentemente ammonito dal suo capo, con fare gentile ma gelido come un merluzzo Findus mi disse solo: -Verso il fondo c’è posto-.
Anche lì fui sommersa da mille domande e sensi di colpa.
Era stato il mio comportamento arrogante forse a fargli avere la strigliata, avevo forse esagerato?
La pancia era in subbuglio, non potevo stare zitta.
Mi avvicinai a lui, alzandomi dal mio posto.
-Signor Gennaro, volevo dirle, insomma mi volevo scusare per qualche giorno fa.-
- Cumme ve chiammate signuri’?-
-Io Flora.-
-Allora piacere.-
-Piacere mio Gennaro.-