Oltre la foresta di rosmarino ove il corso dei due fiumi si intersecava per unirsi in uno solo, alle pendici del monte ovale, sorgeva il castello in cui viveva un  cavaliere dagli occhi grigio verdi, di nome Edran. 

Aveva spalle larghe e toniche, una di esse marchiata dalle sue manie velenose. Quando si passava le mani sul capo, scompigliava i capelli scuri, solcati da nostalgici fili bianchi.

Il maniero triangolare abbracciava una torre su ogni vertice. La torre guardiana, la più alta, gialla, era costituita da due tulipani sovrapposti, la grassa era un tino bucato rosso e la secca, bianca, alta come una spiga di grano turco, ospitava le stanze del cavaliere.

Era rivolta ad est, una posizione strategica: ad Edran piaceva svegliarsi alla luce dell'alba, piano piano, seguendo il corso del sole. Quando il chiarore appariva tra le colonnine delle bifore, le palpebre iniziavano a vibrare, come se gli occhi fossero crisalidi trepidanti e curiose di schiudersi.  Le lenzuola lievi sulla pelle nuda, profumate di malva e gelsomino come i suoi ricordi dolci, erano una carezza eccitante e rassicurante al contempo.

Quel giorno si svegliò con una sensazione di un malessere strano, ne percepiva l'aggressiva avidità all'interno dello stomaco, o forse a lato del cuore, di certo era voracemente fastidioso. Tentava di ignorarlo, mostrandosi sempre sorridente, ma le dita correvano farfalline al cuore, ogni tanto, come un gesto inconsulto e inconsapevole.

La brillantezza era un dono innato che a volte falliva nel nascondere i suoi pensieri nascosti, anche a se stesso. 

Le cornacchie, sulla guardiana, pareva lo sapessero, crocidarono battendo le ali, per schernirlo. Le maledì, scrutando l'inizio dei colori lucidi del giorno. La brezza fresca gli alitava sul viso. Appoggiò le mani al davanzale e si allungò la schiena, come i gatti. Le vertebre scroccarono. Lo sguardo percorse, in linea retta, la distanza che occorreva per raggiungere il mare; si potevano quasi contare le barche ancorate nel porto,  alcune miglia avanti, sotto il cilindro bianco del faro. 

Il villaggio sottostante era in fermento. 

Le due strade principali erano percorse dai carri dei mercanti carichi di merci in scambio al porto. Si soffermò ad osservare i raggi solari che si insinuavano sotto le arcate sovrapposte dell'antico acquedotto. 

Sulla destra, oltre i pascoli,  dalle terre coltivate e risaie si alzava il fumo delle fornaci degli elfi tornitori, gli abilissimi ceramisti conosciuti in tutto il regno. 

Sospirò immerso in quello spettacolo quotidiano che mai lo annoiava, coronato dall’assenza di nuvole, quel mattino. “Anche il cielo è brillante come me” - pensò sorridendo.

Quando il sole lo guardò negli occhi, rientrò per sciacquare i sogni, indossò le brache marroni ed una camicia bianca, stretta in vita dalla cinta borchiata. 

Scese le scale. 

Mangiò un boccone rimasto dalla cena e si diresse alla stalla. 

Ariel come lo sentì arrivare nitrì lievemente, senza alzare la testa, sbuffando. Le accarezzo il fiore sulla fronte e la sellò. 

Mentre usciva dal ponte levatoio, il vecchio capo guardiano lo salutò. Cavalcare Ariel pareva assopire, colmare quella sensazione di vuoto, per questo amava il suo ritmico salto, una sensualità nuova che lo intrigava.

Attraversò i pascoli di Svool e Lanir ove le pecore a due teste brucavano a turno, sorvegliate da due apprensivi diplodochi. 

I due pastori si stavano baciando imitando la fregola delle bestie in calore. 

Dornor, un paio di miglia oltre, era intento a raccogliere pomi iridescenti, lungo le andane dei filari, per le sue marmellate psichedeliche. 
Presso le risaie, mentre Ariel si abbeverava, poggiato al tronco di un salice, si incantò ad osservare le mondine, chine nelle risaie, attorniate da stormi di pipistrelli diurni delle grotte del monte ovale che le proteggevano dalle zanzare, come streghe benefiche. Sorrise al pensiero. 

Soffermò lo sguardo sulle gambe tornite, carni candide. Un onda di sangue lo riempì.

Giunse finalmente al villaggio degli elfi, non vi si recava da quanto, pensò, forse quindici anni. Da quando il padre di Lanuv, giurò di mozzargli il naso quando seppe della relazione con la figlia. 

Uomini ed elfi potevano collaborare, entrambe le razze avevano da imparare l'una dall'altra, ma l'amore, la famiglia era tutt'altra cosa. 

“Gli elfi sono monogami ed eterosessuali. Voi umani, puah, schifezze!” questo l'assioma del vecchio Rouam, spiegatogli brandendo un paio di grosse cesoie, mentre nella stanza di Lanuv tentava invano di coprirsi il pube.

Legò Ariel all’unico anello a forma di Y infisso, tra altri, nella colonna dell'ospitalità, con abbeveratoio e mangiatoia. Le appoggiò la testa sul collo sudato, il palmo della mano le sfiorò il remolino sinuoso sulla scapola. Ariel sollevò il labbro allungando il collo; lo salutava così.

Si diresse verso l'abitazione di Lanuv. Chissà se e come l'avrebbe accolto.

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