Ciao, ma ti sei mai chiesto come mi sento?
No, penso proprio di no. Perché dovresti?
Ai tuoi occhi sembro normale.
Già!
I tuoi sono gli occhi di chi mi vuole bene, offuscati dall’amore per me.
Guardami bene. Prova a guardarmi con gli occhi degli altri, con gli occhi… quelli veri, quelli che vedono tutto, che scrutano, che fissano, che imbarazzano, che vedono cosa c’è veramente da vedere: la mia diversità.
Gli occhi che mi squadrano, mi deridono, ammiccano, cercano altri occhi compiacenti per sottolineare il mio non essere come loro, pronti a giudicarmi. Gli occhi a cui non sfuggono le mie movenze, il mio modo di gesticolare, il mio vestire.
Proprio quegli occhi sai, gli occhi degli altri, spengono i miei sorrisi, i miei progetti, i miei desideri ed accendono le mie ombre che illuminano le mie paure, le mie angosce, i miei brutti presagi che ne sono davvero tanti, talmente tanti che occupano ogni spazio della mia mente senza lasciare neanche un angolino in cui custodire le gioie legate alla mia infanzia.
Gli occhi che in ogni momento mi stanno addosso come se non avessero altro da guardare, quelli che fantasticano immaginandomi quando esprimo i miei sentimenti, quando dimostro il mio amore.
Proprio quelli, gli occhi degli altri, sono i peggiori, i più soffocanti. Mi tolgono il respiro, insaziabili come sanguisughe mi prosciugano la mente, divorano la mia essenza.
Come dici? Esagero? Gli altri non sono tutti così?
No, no. Credimi sono così, non mi accettano, mi isolano.
Che ne sai tu di quante volte in classe facevo merenda da solo, di quante volte mi escludevano dalle partite di calcetto perché altro non ero che una femminuccia, come se poi una femminuccia non fosse capace di giocare a calcio, di quante volte non mi invitavano alle feste, di quante volte quando li avvicinavo smettevano di parlare, di quante volte si chiudevano a cerchio dandomi le spalle, di quante volte mi lanciavano dei sassolini, di quante volte passandomi accanto volutamente sfrecciavano con le bici nelle pozzanghere per infangarmi e deridermi ed in coro, sghignazzando, mi ripetevano “vai, vai corri da mammina”. Tutti i giorni mi allontanavano o beffeggiavano, chi provava a coinvolgermi, ad includermi, subito veniva richiamato all’ordine, bastava uno sguardo di disapprovazione e mi ritrovavo nuovamente solo. Per non parlare poi di quando al mio arrivo in classe, bisbigliavano “è arrivata la donna barbuta” per quella mia barbetta che più per pigrizia che per altro non amavo eliminare, perché avrei dovuto poi, per non dare adito ai loro giudizi?
Chi sono gli altri per giudicarmi? Per esprime una sentenza? Perché poi dovrei essere giudicato? Per cosa?
Non ho commesso nessun reato, ho sempre teso la mano al prossimo quando ce ne era bisogno. Quando ho provato io a chiedere una mano, ci ho provato eccome, credimi, ho sempre trovato pugni chiusi, quei pugni che simbolicamente troppe volte mi hanno scazzottato senza lasciare agli occhi degli altri alcun segno, ai miei invece, che continuano a svelarmi il mio essere, si sono palesati come ferite profonde, indelebili, che mi hanno portato a chiudermi nei miei silenzi, a reprimere la mia allegria, la mia spensieratezza, la mia esuberanza per paura di essere additato.
Già, paura!
Ed eccomi qui rinchiuso tra queste mura in questa stanza che ogni giorno sembra diventi sempre più piccola, sempre più piccola da affamarmi d’aria, prima o poi finirà col restringersi talmente schiacciandomi e mettendo fine a questi miei pensieri, a questo mio spazio in cui, solo parlandoti, riesco ad essere me stesso.