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Quando papà si ammalò per la prima volta avevo appena dodici anni. Era il mille novecento cinquanta nove.
Ricordo che era primavera avanzata, quasi estate e di giorno faceva caldo, ma la notte nelle nostre valli fra le montagne, faceva freddo e si stava bene al calduccio nel letto. Una notte, la mamma mi svegliò concitata << Svegliati, papà sta male e non so cosa fare, non respira ...>> Si affidava a me come se fossi in grado di sapere cosa fosse meglio fare. Si aggrappava all'unico sostegno ancora troppo fragile per fare qualcosa per lei. Ancora assonnata mi avvicinai al suo letto ed effettivamente papà respirava a fatica e dalla sua gola usciva un sibilo. Bruciava di febbre e rabbrividiva. Non sapevo cosa fare, dopotutto ero solo una bambina. Mamma piangeva e si dava da fare per coprire papà con una coperta di lana calda mentre gli bagnava la fronte con un asciugamano. << Bisogna chiamare il dottore >> disse quasi balbettando
<< Vado, prendo la bici. Mi metto la giacca pesante perché fa freddo >> Non sapevo esattamente cosa stessi dicendo, sapevo solo che nella zona c'era un solo telefono al bar che di notte era chiuso e quindi non funzionava. Lei cercò di trattenermi combattuta tra l'istinto di proteggermi e la disperazione per il marito che stava male. Sfogava la sua impotenza piangendo come una fontana. Io non piango mai, sono una dura, io. Bisognava andare di persona a chiamare il medico condotto che stava a tre chilometri di distanza. Il nostro paese era suddiviso in tre parti : il comune, a due chilometri la parrocchia, e a tre km dalla parrocchia la nostra frazione. Piccolo gruppo di case con una trentina di abitanti in tutto. Per raggiungere il medico dovevo quindi percorrere tre km di strada sterrata al buio senza nemmeno un lumino per illuminare la via. La mia bicicletta era un vecchio catenaccio arrugginito sul quale pedalavo a fatica, per fortuna era dotato di una grossa dinamo che girava e ad ogni giro di pedale e alimentava un bel fanale che illuminava la via davanti alla ruota. Tutti mi prendevano in giro per quel fanalone esagerato, ma in quel momento benedissi chi me lo aveva montato sulla bici. La strada era buia e dissestata, piena di sassi e buche. Intorno a me sentivo rumore di animali e uccelli notturni e confesso che non ero proprio tranquilla, tuttavia il più grande pensiero era rivolto a mio papà e speravo di arrivare in tempo dal medico. In breve arrivai al punto cruciale del percorso. Davanti a me si stagliava la massicciata del treno internazionale che andava e tornava dalla Svizzera. Per passare dovevo affrontare un tunnel di una trentina di metri. Con grande modernità avevano posto due lampadine da trenta watt all'inizio e alla fine. Grande illuminazione ! Con un po' di timore raccolsi le poche forze e pedalai con foga fino alla fine. In apnea. Tornai a respirare all'uscita del tunnel. Il medico abitava a poca distanza e quando mi vide non voleva crede che avessi percorso quella strada alle due e mazza del mattino. Salì in fretta sulla sua topolino c e partì veloce come un razzo. La moglie voleva che mi fermassi a dormire da loro, ma ero troppo in ansia per mio padre e ripresi la bicicletta sgranocchiando le noccioline ricoperte di cioccolato che mi aveva offerto.
Quando rientrai in casa, il medico era riuscito a far respirare papà ma aveva preparato i documenti per il ricovero ospedaliero. Papà resto in ospedale circa un mese, dissero : enfisema polmonare. Avrebbe dovuto smetter di fumare e soprattutto di bere.
Quella notte, dormii solo due ore e al mattino andai dalla sarta dove avrei dovuto imparare un mestiere. Solo pochi vennero a conoscenza della mia gitarella notturna e non fece nessun effetto, come se fosse normale per una bambina di dodici anni.
Lo chiamate coraggio ? Non so cosa sia ma io sono così, faccio le cose e poi ci penso e se va bene è coraggio.
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Utente Anonimo
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