Quando ero piccolo mio padre mi regalò un asinello, ma non era da intendere come i giocattoli di adesso, bensì come uno strumento di lavoro. Così come mio padre aveva un cavallo che lo aiutava nei trasporti, così io, ora, possedevo un asinello per i trasporti quotidiani più piccoli. Sicuramente io avrei preferito ricevere una bicicletta a tre ruote con il cassone davanti, quelle che adesso si chiamano tricicli da carico, che avrei potuto utilizzare per le stesse attività dell’asino, ma certamente con più entusiasmo. Il mio babbo, però, mi rispose che condurre l’asino carico in salita era meno faticoso di un veicolo a pedali e, comunque in salita non sarei riuscito a portarlo per il troppo peso, mentre l’asinello sarebbe riuscito a salire facilmente anche nei sentieri più stretti e ripidi.
In quei tempi, in casa avevamo un grande cortile con gli animali, come galline, conigli e maiali, da un lato erano utili economicamente e per uso alimentare, dall’altro erano un grosso impegno perché bisognava dargli da mangiare. Il loro cibo era, per lo più, costituito da prodotti dell’orto o altre cose che prendevamo in campagna, come erba, rami e frutti cresciuti spontaneamente, che da trasportare in spalla fino a casa erano pesanti, quindi l’asinello mi tornava molto utile.
Ricordo l’asinello quando camminava, sotto gli zoccoli non aveva i ferri come i cavalli , quindi trovava fastidioso percorrere la strada vera e propria, preferendo il ciglio in terra battuta, dove c’erano le erbacce alte e i rovi, che per tutto il viaggio mi graffiavano le gambe, dato che d’estate io avevo sempre i pantaloncini corti.
Molte volte andavo in campagna da solo e, considerato che ero ancora un bambino, mia mamma si preoccupava per me: voleva avere un segnale del mio arrivo nei campi, per essere più tranquilla. Non avevo alcuna idea di come avrei potuto avvisarla. Una soluzione potevano essere i segnali di fumo, come facevano gli indiani, ma in Sardegna d’estate ci sono circa quaranta gradi e se accendi un fuoco rischi di provocare un incendio, quindi scartai l’ipotesi.
Dopo una lunga analisi, valutando le risorse a mia disposizione, ritenni che l’unica possibilità era mandare un “SMS VOLANTE” con dei piccioni viaggiatori.
Mio papa mi aveva insegnato che, per addestrare i piccioni a seguirmi, dovevo attirare la loro attenzione offrendogli del cibo ogni volta che mi vedevano, così, con il tempo, mi sarebbero diventati amici e mi avrebbero seguito anche nei miei viaggi. Perciò, scelsi di addestrare una coppia di giovani piccioni dal colore particolare, affinché mia madre potesse riconoscerli e capire il messaggio.
L’addestramento fu lungo e difficoltoso, le prime volte mi seguivano solo per un pezzo del viaggio, poi tornavano indietro, nonostante tenessi il mais in mano come invito; forse erano già sazi! Allora provai a legargli una zampetta con un filo, cosi che fossero obbligati a seguirmi; mi volavano tutt’ attorno, rimanendo sempre a poca distanza, come fossero palloncini gonfiati con l’elio. Anche questo tentativo fallì, perché l’asinello, vedendoli all’improvviso così vicini, si spaventava muovendosi inaspettatamente, rischiando di farmi cadere dalla sella. Decisi allora che, per continuare l’addestramento, sarebbe stato meglio tenerli in una gabbia per tutto il viaggio.
Dopo i primi tentativi, i due piccioni mi seguivano liberamente e, per continuare ad incoraggiarli, ogni tanto, gli davo dei chicchi di mais come premio.
Arrivato a destinazione, lasciavo libero uno dei due piccioni che, istintivamente tornava verso casa, portando il messaggio del mio arrivo a mia madre.
Poco prima di tornare liberavo il secondo piccione, affinché potesse avvisare mia madre del mio ritorno. Lei sapeva che, da quel momento, avrei impiegato dai venti ai sessanta minuti per rientrare, in base a dove mi trovavo.
Quello che mi dava veramente fastidio era che i piccioni mi colpivano, spesso, con i loro escrementi; in particolare il maschio aveva preso di mira la mia spalla sinistra.
Non lo sopportavo più, ero convinto che lo facesse per prendersi gioco di me. Gli diedi un ultimatum, dicendogli: “Stai attento che se lo fai ancora ti tiro il collo. Questa volta non scherzo!“ . Dopo qualche giorno la mia spalla venne centrata di nuovo proprio nel punto che non lasciava dubbi sull’autore. Mi misi a rincorrere il volatile ma lui, intuendo cosa volessi fare, scappò. Chiaramente era molto più veloce di me, ma io ero più furbo; aspettai. Poi, presi del grano in mano e attesi il suo arrivo. Lo presi al volo e dissi: “Adesso ti tiro veramente il collo, così la prossima volta ti ricorderai e la smetterai di farmi questi scherzi”.
Gli afferrai il collo e glielo tirai ma, inaspettatamente e con mio grande stupore, il collo mi rimase in mano e il sangue schizzò dappertutto riempiendomi d’angoscia per la dolorosa sorpresa. Corsi immediatamente da mio papà piangendo e gli dissi: “Papà, Palombito si è rotto, non sono stato io, lo aggiusti? Dimmi che si può fare, ti prego”.