Via della vedova (‘Veduà’)
Sono quasi tutte a coppie le foto ingiallite del cimitero che resiste nella parte vecchia del paese. Anche se sono ventidue gli anni che separano l’ultimo giorno di Antonio e Assunta, l’immagine ignora il lungo tempo della solitudine di lei, e li immortala così come hanno voluto vivere, in coppia. ‘Grazie mamma, i figli tutti ringraziano’ sta scritto in calce. Io li conosco bene i figli, a suo tempo domandai perché di quel grazie. ‘Per l’attesa, per la solitudine del vivere da vedova crescendo noi tutti’.
A guardare bene, quella lapide è identica a tante altre esposte. Grazie a tutte le mamme, che hanno atteso vanamente nel borgo vecchio gli uomini dispersi in Russia o morti in Africa. Non è la via delle vedove, ma la strada dell’attesa.
Questi ringraziamenti scompaiono da quelle del dopoguerra, foto a colori di un tempo più bello, dove gli sposi hanno campato la vita sino alla fine. Belle tutte queste coppie, con le prime 500, innamorati sul seggiolino della Vespa e con gli abiti a fronzolo. Bellissima era la mamma, con la vita stretta e i capelli cotonati. Un tempo di smisurata speranza.
Via della strega (‘Via d’la strìa’ )
‘Sempre sia lodato’ mi faceva ripetere il nonno innanzi al rigido arciprete. Incenso e dopobarba, un senso cupo di dolore causato da altri e pagato da tutti. Espiazione, redenzione. Parole d’ordine di un tempo remoto recitate in canonica.
“Chiedi perdono, e stai vigile”. “Ma che vuole dire?”chiedevo mentre osservavo sgomento la testa di San Giovanni decollato sopra al pulpito.
“Significa che tu dovrai saper perdonare, e stare attento al malocchio. Sei figlio di questa terra”.
Figlio di contese e di diatribe tra famiglie che avevano perso la memoria, ma non la pratica di volersi male per contrade. Discendenti delle streghe gli uni, dei carnefici che le bruciavano gli altri. Stemmi a testimoniare i massacri.
Nei cuori di quegli uomini batteva solo un muscolo feroce, ritmato. Erano più che violenti, erano senza cuore. Vestiti di Rosso si spostavano mossi dall'odio cieco e dal desiderio di ammazzare, atleti perfetti del terrore da inculcare.
Sono queste le figure di cacciatori di streghe che vivevano in Luigiana, ai tempi del Malleus Malleficarum. Sotto al ponte almeno 30 ne hanno arse vive. Ecco allora la chiave delle parole dell’arciprete.
Perdono, per le colpe commesse da noi tutti verso quelle povere donne.
Ma attento, il malocchio delle streghe da qualche parte rimane. Stai vigile.
Il malocchio si toglie con l’olio, il sale ed una formula che la nonna recitava. Chiama il Signore, caccia la strega che ha ‘strià’ (stregato) il bambino. Stregato, termine che oltre l’Appennino perdeva il suo significato sinistro per mutare in frase da romanzo o da fiaba per i piccoletti. ‘Strià’è il ragazzino vivace, birbante. Parola che resiste ancora nel dire dei paesani.
Via del Perdono
Perdono e pietà. Parole rare in entrambi i dorsi dell’Appennino.
Perdono chiedevano le madri dei ragazzi stanati all’alba dai loro letti e impiccati sul noce. Il più giovane fu tenuto esposto cinque giorni, a ricordare a tutti che non c’era pietà. La donna vestita di sacco non potè andarlo a deporre, pena rivelare il suo essere madre. La piccola comunità ebbe cura di questa donna. ‘A iò a chér’, inflessione dialettale emiliana compagna di ‘ I Care’. Significa preoccuparsi, avere a cuore e nel cuore. Era la formula con la quale si dava la dote alla sposa.
Poco incline al sacro, laico anche nel suo pronunciarsi, il dialetto dell’altra mia terra protesse quella madre. Sino a che morì di crepacor, crepacuore, che non è infarto, ma qualcosa che non si traduce.
Via degli Esposti
La ruota degli esposti confina con il vecchio muro di cinta che divideva la polis dalla vegetazione incombente. Mi sono sempre domandato perché i bambini rifiutati non venissero posti innanzi alla chiesa di San Giovanni, pure dotata di pertugio, ma lasciati per alcune ore al freddo.
Me lo ha spiegato l’anziano sacerdote: se tutti gli infanti si fossero salvati, sarebbero divenuti bocche da sfamare per una cittadina allo stremo. L’esposizione al freddo permetteva una selezione feroce, ma accettata.
Pietà e fame, sono parole che non vanno in coppia. Quelli che hanno fame non possono essere buoni, ha scritto più o meno questo, da qualche parte, il dr Destouches.
Via della fame
E di fame ce n’era tanta allora. Tanta da non avere tempo di domandarsi null’altro oltre a che cosa si sarebbe portato a tavola quel giorno. La penuria di cibo generava frenesia. La corsa partiva la mattina, con la tessera annonaria. Poi c’era il pomeriggio passato al mercato nero, e la sera la si dedicava al baratto tra vicini. Si regalava il grana per i matrimoni, il caffè, dicono, spesso si ostentava sulla credenza a bella vista per gli ospiti, ma a cena si beveva il surrogato di cicoria. Quando la nonna è scomparsa, ho trascorso un intero pomeriggio con le donne anziane del posto. Mi hanno accolto distribuendo biscotti e cognomi, ricostruendo e annaffiando l’intero albero genealogico, collocando nel tempo episodi, citando unioni e matrimoni, narrando di chi nacque dall’incontro con chi.
Ogni personaggio della storia aveva un soprannome, derivato dalla sua attività o da una particolarità fisica.
Le sei diverse famiglie di quella via sono ricordate con soprannomi che testimoniano di come si procuravano il cibo e che, nel tempo, si sono sostituiti al cognome anagrafico.
Beccafico, Mangiapatate, Vinella, Scorticatopo, Rubafagioli.
La via della fame. Abitata da donne che in Toscana si chiamano ‘matrone’, in Emilia diventano “rezdore” (quelle che fanno la funzione del “reggente”).