Correva l‘anno di nostro signore 1988 quando venni al mondo. Era una fredda notte tra il 24 e 25 dicembre all’ospedale Buzzi di Milano. Aspettai che passasse la mezzanotte. Avrei fatto grandi cose, non v’era alcuna fretta di capicollarmi fuori. I miei mi chiamarono Matteo che significa figlio di Dio. Non credo che l’avessero fatto per il significato religioso, semplicemente gli piaceva, Matteo. Sta di fatto, che mi montai subito la testa. Certo sarei morto a Pasqua a 33 anni, ma il gioco valeva la candela. Durante i primi anni di vita mostrai subito di essere sopra la media. Mi piaceva Dumbo, il cartone Disney. E soprattutto la scena psichedelica degli elefanti rosa. Mettevo la cassetta solo per quella scena.
Vissi felice e spensierato fino all’età di tre anni quando conobbi il mio Giuda. Mio fratello Paolo mi sottrasse il palcoscenico. Non ero più un Dio onnipotente, ma solo il fratello maggiore. Mi veniva vicino mentre giocavo al game boy. Con la sua enorme testa bionda. Portatrice di caccole e calore.
Alla scuola elementare mi distinsi per alcuni miracoli minori. Pipi addosso seduto in classe. Che ho abilmente nascosto incolpando la mia compagna di banco Roberta, nota piscialetto. Ostentate capacità fisiche che mi valsero la medaglia d’oro alle olimpiadi di Topolino.
Infine riuscii a uscire pulito da una brutta faccenda che accadde in quinta. I maschi della classe, a quanto pare, toccavano le parti intime delle ragazze. Mi ricordo molto bene il giorno del giudizio finale in cassazione. Le bambine della classe schierate a semicerchio indicavano a turno i bambini che le avevano importunate. Eravamo tutti dentro fino al collo. L’insegnante leggeva dal registro i nomi dei maschietti e le ragazze alla cattedra esplodevano in un ”SI, COLPEVOLE”.
I miei compagni caddero tutti uno dietro l’altro. Solo uno fu risparmiato. Veniva chiamato Riky one
Io ero in fondo al registro. Sia lodato il mio cognome. Ero riuscito a corrompere, con delle merendine, tre bambine. Una era invaghita di me. Quando venni chiamato, i pareri furono discordanti. Le contrarie convinsero le favorevoli. Qualche franco tiratore e la feci franca.
Le estati passavano e il prete continuava a cacciarmi dal campo di calcio dell’oratorio. Non potevo starci se non andavo in chiesa. In chiesa poi a fare che, non l’ho mai capito.
Ma che bisogno avevo di un altro Dio? Già c’ero io. Così giocavamo al parchetto.
Erano gli anni 90. E l’eroina andava per la maggiore. I nostri genitori c’avevano detto di stare attenti alle siringhe. Io ero così terrorizzato che quando le vedevo ai bordi del campo scappavo velocissimo nella direzione opposta con la palla al piede. Scartavo tutti. E facevo gol. Fu così che divenni un campione. Non voglio sembrare presuntuoso, ma ero probailmente il più forte del mondo (fino ai 12 anni. Poi gli altri iniziaro a crescere e io rimasi un po' indietro, mettiamola così).
Dov’ero? Ah si, ero il più forte del mondo. Ero così fottutamente forte che mi ero preso la questione a cuore. Del tipo, da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Mi credevo un supereroe del pallone. Quando qualcuno faceva lo spaccone, laggiù nei campetti di periferia, quando qualcuno prendeva in giro il mio amico Munir, perché marocchino, IO entravo in azione. Non gli buttavo addosso fulmini e saette. Molto peggio. Umiliavo lentamente la sua superbia con giocate di fino, velocità, precisione e furbizia sopraffina.
Le scuole medie iniziarono nel peggiore dei modi. Il primo giorno della lezione di musica avevo una scarpa slacciata. Mi chinai ad allacciarla. Proprio in quel momento entrò il professore. Un omone alto due metri che girava in Ferrari e si diceva uscisse con donne bellissime. Tutti i miei compagni si alzarono in piedi e fecero il saluto militare. Tutti tranne uno, il sottoscritto. Io ero intento a allacciarmi quella imbecille scarpa da ginnastica. Lui esordi:
”La nostra nazione ha oggi più che mai bisogno dei giovani. E loro devono imparare la disciplina. È per questo motivo che un comportamento come il tuo (mi indicò, e io mi guardai dietro. Ma niente. Ce l’aveva proprio con me lo svitato) mina il futuro della nostra nazione”. Non so perché lo feci. Mi alzai inpiedi e gridai:
”Heil HITLER!”
Fui assegnato alla pulizia dei fluati dolci. Dovevo pulire gli sputi di quei pre-adolescenti pervertiti dei miei compagni di classe. Aveva iniziato Massi, il bulletto. Chiedeva di andare in bagno e si portava dietro il flauto. Rientrava e diceva:
”Prina il mio è un po’ sporchino, puliscilo!” e io dovevo ripulire quella brodaglia disgustosa.