Non era successo.
Giampiero Galli si sdraiò sul letto, incrociò le mani dietro la testa e guardò il soffitto.
«Non è successo» ripeté a voce alta.
Era un tentativo di darsi coraggio, ma riuscì solo a sentirsi ancor più a disagio. Strano. O forse no. Forse esprimere una negazione finiva soltanto per affermare la realtà del fatto che si voleva negare. Non c’era modo di esprimere il nulla: il fatto stesso di nominarlo, lo faceva in qualche modo esistere.
Quella sera era sul filosofico, constatò girandosi su un fianco.
E comunque, in qualche modo, qualcosa era successo.
La Maradei l’aveva chiamato alla lavagna. I leoni sentono quale gazzella è più debole e i professori percepiscono quando l’allievo è impreparato. Ma il bello era che, quella mattina, lui, Giampiero Galli credeva di essere preparato. Almeno fino a quel momento.
Nei primi minuti sembrava che tutto andasse liscio. La Maradei gli aveva chiesto di calcolare il moto di un corpo su un piano inclinato senza attrito e lui aveva disegnato il piano, le frecce, i vettori, le forze in gioco… e poi era successo.
Non avrebbe saputo dire come, ma, quando si era trovato a dover rappresentare la risultante delle forze, la freccia che la indicava si era trovata a dirigersi (necessariamente gli suggerì una voce interiore in base ai tuoi calcoli quello era l’unico moto possibile) a perpendicolo rispetto al piano. Insomma il corpo, nel suo grafico, a metà della corsa prendeva il volo e si perdeva… nell’infinito.
Carminati, in prima fila, era scoppiato a ridere e aveva dato una manata sul banco. Senza volerlo, aveva colpito una biro e quella era schizzata via colpendo la finestra con un click plastico.
Questo era quanto era successo.
Perché quello che Giampiero aveva visto – che molti avevano visto, sospettava – era la biro che scivolava lungo il banco (inclinato, sì: era un vecchio banco con una gamba più corta delle altre), rotolava verso il bordo… e a un certo punto schizzava via.
Erano seguiti alcuni secondi di silenzio e Giampiero ne aveva approfittato per cancellare il vettore ribelle e sostituirlo con un secondo, sghembo e sbavato.
Era stato veloce, ma non abbastanza. La Maradei gli aveva rivolto un’occhiata di stizzita commiserazione… in apparenza. Il reale sentimento dell’insegnante – quello che lui aveva percepito con un istinto uguale a quello della famosa gazzella – era sadico divertimento misto a disprezzo.
Il resto dell’interrogazione era proseguito con Giampiero che si profondeva in generici farfugliamenti e la Maradei che lo trafiggeva con domande fitte e pungenti come aculei di riccio.
Alla fine, dopo avergli chiesto qualcosa che aveva a che fare con lo zero e l’infinito, l’insegnante lo aveva rispedito al posto, mentre la classe gli riservava uno sguardo simile a quello che, probabilmente, gli orsi polari avevano riservato al Titanic mentre affondava. Nulla di straordinario: succedeva spesso e non era questo a turbarlo.
Era un’altra la sensazione che inquietava Giampiero Galli: la convinzione che i suoi calcoli fossero giusti. Che davvero il vettore non potesse, non dovesse far altro che volare via nel vuoto, e il corpo con esso.
Si girò sull’altro fianco, trascinandosi dietro una considerevole quantità di coperte.
E non esistevano le geometrie non euclidee, forse? Mondi matematici in cui i postulati di Euclide andavano a farsi benedire, in cui esistono più rette aventi una perpendicolare comune o non esistono affatto rette? E con ciò? La fisica dell’ultimo secolo non aveva dimostrato che la fisica classica andava bene finché noi decidevamo che poteva andar bene? Gli scienziati, con buona pace degli scientisti, avevano dimostrato che l’universo era un posto molto più strano e incomprensibile di quanto mai noi saremo in grado di concepire.
Si alzò dal letto, consapevole dell’inutilità di ogni tentativo di rilassarsi e si affacciò alla finestra – in realtà un abbaino ricavato in una mansarda.
L’universo, già.
Solo il 4% della materia e dell’energia che lo compongono sono osservabili, aveva letto o sentito da qualche parte. Il resto è composto da materia oscura – della quale sappiamo che esiste e che, in qualche modo, interagisce con la realtà osservabile – e di energia oscura – della quale sappiamo che esiste e basta.
Ispirò l’aria fresca della notte e guardò i lampioni, giù in strada, oltre la falda inclinata del tetto.
Abbiamo dimenticato il buio. - pensò - O meglio, abbiamo cercato di dimenticarlo. Forse non abbiamo riempito le città di luci per vedere meglio, ma per vedere meno. Per non cogliere l’oscurità nella quale siamo immersi. Ma l’oscurità esiste. E ci avvolge.
Sorrise. Per quel che sappiamo dell’universo non dovremmo stupirci poi troppo se, un giorno, un corpo si stufasse di scivolare su un piano inclinato e volasse nell’immensità. E non potrebbero esserci, forse, infiniti universi?
Lo colse di nuovo quella sensazione di inquietudine, mista, stavolta, a uno strano senso di esultanza.
Carminati aveva colpito la biro sul banco e quella era volata via. Lui aveva approfittato del trambusto per cancellare il vettore perpendicolare al piano e quella, dopo aver colpito la finestra, era caduta a terra.
Già.
Ma se lui non avesse cancellato il vettore? Se non si fosse fatto spaventare dall’idea che era sbagliato? Se fosse solo una questione di volontà? Una questione di fede?
Alzò di nuovo lo sguardo verso il cielo stellato. Sembrava quieto e fisso, ma Giampiero sapeva che stelle e galassie si allontanano l’una dall’altra, disperdendosi nel buio e nel freddo. L’infinito. Appunto.
Quanto faceva infinito per zero?
Giampiero Galli andò alla scrivania, prese carta e penna e tracciò quella specie di “otto” orizzontale che è il simbolo dell’infinto, poi tornò alla finestra.
«Infinito per zero» disse a voce alta scrivendo il segno del “per”, dello zero e del “uguale” dopo quello dell’infinito.
A volte si sentiva dire che si trattava di una moltiplicazione il cui risultato era zero, come un match in cui lo zero (uno zero come lui era per la Maradei e per Carminati e per chissà quanti altri) metteva al tappeto l’infinto, …. ma era una risposta sbagliata.
La domanda non aveva senso (se lo ricordava e se lo ricordava soltanto adesso, maledizione!) perché l’infinito non è un numero, ma un limite; infinito per zero era una forma indeterminata e avrebbe potuto dare qualunque risultato. E allora, forse, era solo una questione di volontà e di fede.
Giampiero Galli tracciò il segno dopo l’uguale e guardò oltre le luci dei lampioni, scrutando il buio della notte.
Attese un istante, poi spiccò un balzo, scivolò lungo il tetto e volò via, là dove l’Universo si espande creando lo spazio ed il tempo nella sua lotta col nulla, per vedere come sarebbe andata a finire.