Due atomi fanno tre storie.
(Citazioni lapalissiane, Thomas J. Plight)
Ho ribattezzato rettifilo il viale che corre dalla Stazione al Porto, nonostante l’interruzione circolare di Piazza Cairoli e il bivio sbilenco che lo rende uno con Corso Roma. Ero uscito prima del solito dall’ufficio, per dedicarmi una fetta del giorno. Tutta per me, a cominciare da una scarpinata sul biancore solido del rettifilo, appunto. Un salutare quanto simulato mal di testa – piuttosto singolare visto che non ne ha mai sofferto – mi rese possibile la fuga.
Mi era rimasto il non trascurabile problema di raggiungere il mare. Quello balneabile, intendo. Dopo un breve sondaggio svolto con un anziano del posto, con il contorno madreperlaceo di un robusto fumo passivo, capii come dovessi prendere il quattro per raggiungere il limitare di Torre Guaceto. Lasciai Mimmo, il vecchio, gentile fumatore, alle sue MS rosse senza filtro e mi avviai verso la fermata, tra i chiaroscuri violenti di un pomeriggio di sole sfilacciato di ovatta.
Quasi ci fossimo dati appuntamento lo trovai li ad aspettarmi, intrappolato nel traffico intasato delle sei. Salii e, su consiglio del guidatore, mi disposi a scendere al capolinea. Mi immersi quindi nella lettura dell’ultimo scritto di Thomas J. Plight, che mi era appena arrivato dalla Scozia, con la solita dedica leggera e gentile. Pezzi di mare cominciarono a intervallare caseggiati dall’aria anonima, prendendo poi un deciso sopravvento, per lasciare infine rocce solitarie e un sinuoso nastro di asfalto, unico interstizio praticabile tra essi e l’aeroporto.
Una comitiva di giovani, dagli ultimi posti, invadeva lo spazio con la magia del proprio chiacchiericcio spensierato. Una donna dalla bellezza sfiorita – in apparenza non dagli anni – era seduta a tre posti di distanza. L’abbigliamento trasandato aveva l’età del tempo sospeso: le erano vicini i due figlioletti, ma dedicava cure al più discolo di essi, il minore. L’altro guardava malinconico, con aria da piccolo uomo cresciuto troppo in fretta, l’abbraccio di lentischi e oleandri che ogni tanto sfiorava l’esterno del mezzo. Alzai gli occhi dal libro e gli rivolsi un sorriso distratto, di circostanza, ottenendone in cambio uno pieno di entusiasmo, ma irreale, come proveniente da un altro mondo. Anche il ciao con la mano, che solo a me parve di cogliere, apparteneva alla stessa dimensione, come fatto di sogno.
“Antò, non mi fare arrabbiare, resta qui” disse la madre verso il figlio più piccolo, che ciondolava tra i posti liberi, aggrappandosi ai montanti in acciaio come un macaco impazzito.
Non ottenne che qualche boccaccia.
“Vieni qui, non fare come tuo fratello Giuseppe” ripeté, con un tono mesto che trovai ingiustificato. Una dozzina di gladioli carminio occhieggiavano dalla sua borsa, in direzione del mio sguardo.
Nel frattempo eravamo arrivati e scendemmo insieme, unici viaggiatori rimasti. Ci separammo subito: preferirono la via diretta verso la spiaggia, mentre io scelsi un sentiero in terra battuta, fiancheggiato da canne il cui ingiallirsi testimoniava la fine dell’Estate. Il ricordo dei tre mi scivolò dai pensieri, senza rumore, facendo virare al seppia anche quello del saluto di commiato verso Giuseppe, meno distratto del primo sorriso, ma dalla risposta evanescente, disciolta in una dispettosa lama di sole. Mi sentivo libero e, a tratti, felice, come un bambino che assapori una pioggia leggera, estiva. La via si ingobbì verso il basso, diventando quasi scoscesa e perdendo la criniera di cespugli di mirti e piccoli olivastri, che mi aveva accompagnato con una fragranza antica.
Ero arrivato al sorriso muscoloso di un mare in tempesta, dall’aria quasi ottobrina. Alla mia sinistra, il sole si sforzava di non farsi catturare dal bianco dei cavalloni più lontani. Una coppia di amanti aveva scelto la caletta affianco per contrastare il colore delle falesie di tufo, incrostate di pini in bilico. Lessi qualche pagina, appollaiato su uno sperone immerso in spruzzi candidi, dall’aria scherzosa. Poi risalii la costa per cercare la strada diretta dalla spiaggia al capolinea del bus. Ne scorsi una che pareva andare nella direzione giusta. Salutando il disco di fuoco, che aveva incendiato l’abbraccio lontano di aria, terra e mare, mi ci incamminai.
A una ventina di metri vidi un masso, dorato dal tramonto e punteggiato di rosso scuro. Mi ci avvicinai: fiancheggiava solitario la strada. Pareva rincorrere se stesso, nell’eterea forma di corsa in cui uno scalpellino bislacco aveva cristallizzato la follia degli elementi.
La foto che lo sormontava era quella del bambino che mi aveva salutato sul bus, solo più reale e con meno stagioni. Un volo di gladioli carminio nascondeva una targhetta ottonata su cui lessi:
Giuseppe De Donno,
La tua mamma disperata
Mi salutava con energia mesta, dedicandomi un sorriso che si confuse tra le mie lacrime. Raccolsi un mazzo di asfodeli, intrecciandolo con i gladioli mentre il notturno concerto del bosco cominciava i suoi assoli. Restai li, in compagnia di Giuseppe e del canto lamentoso dei gabbiani: canto che sapeva di tragedie, di aspettative di piccoli uomini, di realtà disperse in minuscoli specchi di sogno. Ci raccontammo la vita, seduti di fronte al mare, che sfumava nel buio di un’esistenza solo intuita.