La vita influenza il sogno. E viceversa.
(Dialoghi Onirici, Thomas J. Plight)
Era una mattina di uno splendido Luglio, mi sentivo molto vivo, immerso negli scarichi ignoranti di uno degli quattro letali serpenti di veicoli. Scorrevano affiancati e vagamente consapevoli l’uno dell’altro. Anche se nessuno sembrava badare molto a me, io cercavo disperatamente qualcuno con cui parlare. La verità è che mi sentivo a tratti solo, forse perché lo ero davvero.
Sunset Boulevard era l’unica strada di Los Angeles che mi fosse rimasta impressa e, in nome di questa insperata intimità linguistica, la percorrevo in lungo e in largo, specialmente di mattina, come un ossimoro deambulante.
In quei giorni il mio inglese scolastico si era arricchito alquanto, soprattutto delle infinite sfumature del caffè: tentativi a perdere che l’italiano frustrato che è in me mi obbligava a fare.
In attesa di tempi migliori, risiedevo in una specie di pensione a conduzione familiare, che un cugino di un conoscente di mio zio mi aveva consigliato. Niente male davvero, se il marito della proprietaria, da bravo veterano della seconda guerra mondiale, non ci avesse obbligato al rito dell’alzabandiera.
Tutte le mattine, intorno alle sette e trenta, giorni piovosi compresi.
Era un vecchierello simpatico, dal nome vagamente tedesco, così gentile che gli avrei quasi perdonato l'alzataccia mattutina, anche se una parte di me gli augurava un funerale di stato, come avrebbe di certo meritato.
La stanza era senza pretese, l’essenziale per dormire che io piegavo alle mie esigenze di sedicente scrittore, improvvisando un appoggio sul letto invece dell’inesistente scrittoio. Mi avrebbe sentita su quel punto Jane Romano, la padrona!
Ripresi a scrivere con l’effetto smorzato delle molle del materasso che mi raddoppiava a casaccio le lettere, un vero guaio per il mio già zoppicante inglese.
Lo studio era l’unica stanza in cui mi sentissi davvero a mio agio, ovvero immerso in una sorta di disordine creativo. Ero alla ricerca dell’ultimo volume di filologia comparata di un gesuita tedesco; ne avevo bisogno per un articolo che avrei inserito in una sezione del mio ultimo libro. Ne avevo parlato con l’editore, ricevendone un bofonchiare sordo, che mi piaceva interpretare come un blando assenso.
“Sempre più difficile far quadrare i conti con i tuoi libri, troppo di nicchia.”
Gli risposi come non fosse mia la colpa, quanto del torpore intellettuale di un paese pasciuto a tette e culi.
Non la prese bene, ma non riuscì a rimangiarsi l’assenso. Probabilmente per amicizia o più semplicemente per pietà.
Al centro delle due finestre una pergamena incorniciata mi ricordava, a scanso di equivoci, che Tomaso Volo – che poi sarebbe il sottoscritto, con una m per cortesia – risultava laureato in Letteratura Comparata all’Università di Pisa. In un cassetto giacevano i riconoscimenti accademici e letterari di un ventennio buono, speso a discettare di rotacismi, involuzioni, incroci linguistici, assonanze vocaliche.
Dovevo ancora trovare il titolo del libro, anche se avevo un candidato, uno solo ma scialbo: Storia della Filologia Romanza. C’era poco da scialare, avrebbe vinto la gara con se stesso, lo sapevo.
Da qualche settimana coglievo in me i germi di un’insoddisfazione troppo a lungo repressa, che mi dilatava i tempi del sonno. Un sonno senza sogno, quasi che avessi perso il diritto alla fantasia, grazie alla forza delle occlusive, delle palatali e delle lingue morte. Un segno di ribellione che contavo di analizzare.
Non avrei continuato a far finta di nulla, sarei andato dal dottore, come mi ripromettevo, tanto solennemente quanto ciclicamente, da una trentina d’anni a questa parte.
Chiamai il mio segretario particolare, chiedendogli di sbrigare delle commissioni, poi mi reimmersi nella lettura di un testo che giaceva da mesi sul comodino: i Dialoghi Onirici di Plight. Nutrivo un vago eppur crescente interesse per quel volume, come se avesse potuto darmi un segnale.
“Divagazioni strambe di uno spirito bislacco” mi dissi, sistemandomi comodamente in poltrona.
Stava venendo dannatamente bene, dovevo riconoscerlo. Forse con qualche consonante o vocale di troppo, ma la trama funzionava e i dialoghi erano stranamente credibili.
Mi sarei dato una pacca sulle spalle, ma preferii consumare del latte che aveva visto tempi migliori: da giorni mi chiedeva il colpo di grazia, così lo accontentai, accompagnandolo con ciambelle dall'aria ipercalorica. Impallidii, leggendone gli ingredienti. Bastava dar loro un’occhiata per prendere un chilo.
Ma lo scrittore, si sa, ha un sacro fuoco che lo divora, dal di dentro. Avrebbe bruciato anche quel surplus di calorie.
Il sole stava calando, nel tempo sospeso della scrittura: il periodo ideale per fare quattro passi sul Sunset Boulevard, giusto per smaltire un po’ di ossimori. In fondo (molto in fondo), sentivo di meritarmelo: passeggiando avrei pensato al titolo del libro.
Dopo tre coincidenze con bus dal decoro crescente, sbarcai sul viale, ripetendone la pronuncia diverse volte, per perfezionarla. Sarebbe potuto capitare un giapponese all’improvviso a chiedermi informazioni: estote parati ricordavo dai miei trascorsi scout.
Nuotai nel fiume di gente, controcorrente. Come la mia vita del resto. Avevo in lizza una diecina di titoli. Il più carino mi parve Il sonno del sogno. Ma anche Sogno faceva la sua figura. Oppure potevo puntare su un qualcosa che non avesse nulla in comune con il libro, come Il lungo giorno. Mi sentivo creativo e fresco, come se mi fossi appena ridestato da un sonno – per l’appunto – ristoratore. Qualche bellezza locale notò il mio aspetto sfacciatamente latino, sorridendomi maliziosamente. Risposi al sorriso, non arrischiando un approccio che avrebbe rivelato un deciso gap linguistico. L’avrei colmato con il tempo, ne ero sicuro.