Il campanello suonò all’improvviso, rimbombando nell’ampio appartamento semivuoto. Alzò gli occhi al vecchio orologio a pendolo appeso alla parete, le sei meno cinque, si sollevò lentamente dalla sedia dalla seduta in paglia logora e andò ad aprire. Sorrideva.
Aprì la porta. Dall’altro lato, un viso allegro e giovane, con un pizzetto nero e curato che gli incorniciava le labbra, rispose al suo sorriso con un “my dear, I find you delightful” che la fece leggermente arrossire.
Senza troppi preamboli, come da ormai cinque mesi, tutti i mercoledì alle sei più o meno in punto, i due scomparvero dietro la porta di una delle stanze dell’ampio appartamento semivuoto.
Dal cucinotto si espandeva un intenso odore di zenzero e cannella, proveniente da un bricco metallico lasciato sul fuoco spento. Nell’angolo della stanza, un piccolo tavolo rettangolare ingombro di antipertensivi, anticoagulanti, antipsicotici, antidepressivi, antiossidanti, inibitori dell’acetilcolinesterasi, betabloccanti, ACE inibitori, calcio-antagonisti, diuretici, vitamine, sciroppi, garze sterili e cerotti.
Su una sedia, una gatta nera si leccava lentamente, maniacalmente una zampa, sbadigliava, annusava l’aria socchiudendo gli occhi e tornava a dormire.
Sulla libreria del salotto, l’opera omnia di Dostoevskij, Hemingway, Verga e Maupassant condivideva lo scaffale con una pila di consunti Harmony. Sul tavolino, di fronte alla poltrona, una copia di What we talk about when we talk about love di Carver, trafitta da una cartolina di Roma – Greetings from Eternal city! - a mo’ di segnalibro.
Sull’unica parete libera di un piccolo studiolo ricolmo di kitschissimi piatti decorati appesi ai muri, una copia del Ritratto di Jeanne Hébuterne di Modigliani faceva bella mostra spiccando tra dozzinali decorazioni di triscele, carretti, teste di Moro, Pupi, fichi d’India e fiori di zagara e gelsomino.
Dalla stanza chiusa, nel frattempo, proveniva solo un confuso, pudico bisbigliare, qualche sommessa, composta risata, qualche “YES!” entusiastico e una manciata di cordiali “Excellent, my dear”.
La gatta nera scese bruendo dalla sedia del cucinotto con un balzo elegante, si leccò distrattamente, annusò l’aria ondeggiando il viso ed ‘estendendo’ le vibrisse, e cominciò ad aggirarsi leggiadra per l’ampio appartamento. Indugiò qualche secondo davanti alla porta chiusa, strizzando gli occhi come per guardarci attraverso, miagolò un flebile miagolio e dopo pochi istanti riprese la sua strada sparendo nella camera da letto.
Poi l’ampio appartamento semivuoto ripiombò nella propria statica inerzia, rimbombando del silenzio scandito dal ticchettio della pendola e dai sommessi rumori della vita di fuori.
Alle sette e qualche minuto la porta della stanza si aprì e i due uscirono, lei davanti, lui dietro. Lei spalancò l’uscio dell’appartamento, lui ne uscì. “Oggi è stata dura, mi hai fatto impazzire” gli disse guardandolo dritto negli occhi.
Lui sorrise. “Esagerata. Concentrati solo sulla differenza tra ‘posso’ e ‘potrei’, tra ‘voglio’ e ‘vorrei’. Contestualizzali.”
“Mancandomi il ‘pronome formale’, fatico a costruire le frasi. Sono cresciuta a plurale maiestatis e vossia, non sono portata ad accettare che si possa dare del tu a chiunque, sai bene quanto ci abbia messo con te.”
“Vossia s’abbinirica” le disse lui divertito in risposta esibendosi in un profondo, plateale inchino.
“Santu, riccu e ccu bonu distinu” gli rispose meccanicamente lei facendosi un fugace segno della croce vicino al cuore.
Un “See you next Wednesday, same time, same place” rimbombò sul pianerottolo e lungo la tromba delle scale mentre scendeva.
Chiuse la porta. ‘Se ci sarò ancora, next Wednesday’, pensò. Guardò il vecchio orologio a pendolo appeso al muro: mancavano ancora centosessantasei ore e cinquantadue minuti al loro prossimo incontro. Sospirò.
Il grande appartamento semivuoto ripiombò nel silenzio. La gatta nera continuava a dormire acciambellata sul letto, incurante degli umani affanni.