Negli anni '60, per la mia famiglia, il fine settimana era l'occasione di stare con i nonni e gli zii, tutti riuniti intorno ad una tavola che riempiva un'intera stanza.
I nonni materni ne avevano sfornati 6 di figli. Quattro maschi e due femmine. Una di queste femmine, la maggiore dei sei, era mia madre.
Non vi sto a tediare con la pasta fatta in casa, il sugo cotto per ore sui fornelli e nemmeno con le lumachine da fine pasto posate in una insalatiera più grande della coppa Davis.
A me sembrava del tutto normale e, anzi, mi sarei stupito di passare diversamente la Domenica. Anche Natale e Pasqua non facevano eccezione. Cambiavano solo le portate arricchite dagli antipasti comprati alla salumeria di Remigio dove ci lavorava lo zio Ferdinando, il brodo di gallina in cui galleggiavano i tortelli di manzo e le rose al vino rosso che, riversate a badilate sopra la tavola con mandorle e taralli, precedevano le lunghe partite di "mercante in fiera" giocate durante ogni festa comandata.
A proposito del sopracitato brodo, mio nonno mai si sarebbe accontentato dei dadi della Knorr e nemmeno di qualche carota e foglia di sedano bollite con un po' d'acqua.
Se il brodo doveva essere di gallina, il nonno, la gallina, la doveva portare a casa viva e vegeta. E l'evento non era di quelli che passavano inosservati.
Io non vedevo l'ora di vederla, la gallina. E così mi piazzavo sul balcone che dava sul cortile di via Cevenini, a Milano, per aspettare l'ingresso trionfale del nonno e della povera bestia da sacrificare sull'altare del brodo di Natale.
A me sembrava che la gallina fosse sempre la stessa, bianca, con una espressione rassegnata ma capace di mantenere la propria dignità anche di fronte alla morte.
Tanto più sarebbe risorta come pulcino e al Natale successivo avrebbe di nuovo incontrato il nonno per trasformarsi in brodo.
Prima dell'esecuzione l'animale stava delicatamente posato sulle piastrelle del bagno, con le zampe legate e in posizione accovacciata. Dava l'impressione di recitare le sue ultime preghiere prima di affrontare un destino condiviso con le anguille parcheggiate nel lavandino della cucina e che, invece, sembravano meno rassegnate a tirare gli ultimi. Si contorcevano, ancora vive, nel disperato tentativo di scappare.
Affrontare la lama di zia Carmela era l'infame destino dei rettili che, in realtà, erano pesci pescati nel mare, ma io li percepivo come serpenti pronti ad ingoiare ogni essere umano che capitava loro a tiro.
Quella volta, forse nel '62, successe di tutto.
Ero entrato nel bagno per fare quello che dovevo fare, seduto sulla tazza del water.
Ciondolavo le gambe che non raggiungevano terra e guardavo la gallina che a sua volta mi fissava senza muovere un muscolo, senza sbattere le palpebre. Sembrava minacciarmi. Se non l'avessi liberata mi avrebbe cercato, da morta per beccarmi le orecchie e gli occhi. Si sarebbe così vendicata per tutte quelle occasioni in cui aveva subito una letale tirata di collo per finire nel pentolone e fare contenta tutta la famiglia.
E così, con il cuore a martello e con un gesto più veloce di un razzo, tirai un capo del cordino avvolto intorno alle zampe.
La gallina sembrava soddisfatta e si sgranchì finalmente rilassata. Io ero salvo.
Mi pulii con il solito mezzo chilo di carta igienica, tirai il cordino dell'acqua e tornai nel salotto trasformato in una bisca. Lì potevo seguire le partite di scala quaranta in diretta e osservare le mosse dello zio Camillo che aveva accumulato una discreta sommetta con un paio di mani fortunate. Tremila lire che avrebbe speso offrendo il gelato a tutto il parentado.
Nel frattempo, la gallina aveva recuperato un buon uso delle zampe e razzolava nei pressi della cucina dove zia Carmela staccava le teste alle anguille, ghigliottinate senza pietà e con uno spargimento di sangue degno della battaglia di Curtatone.
Quando vide la gallina razzolare per il corridoio di casa posò la lama assassina sul piano di acciaio, mossa che permise ad una anguilla appena ferita, ancora tra le mani di zia Carmela, di scivolare fuori dal lavello e sgattaiolare, non vista, in luoghi inesplorati.
La zia invece, forte dei suoi 110 chilogrammi, si avventò sul pennuto che bazzicava nei pressi di un pendolo a cucù, lo inseguì sino in camera da letto dove la povera bestiola cercò riparo svolazzando tra tende e lenzuola e contaminando ogni angolo della alcova dei nonni.
Nel frattempo zio Ferdinando aveva raggiunto la cucina per bersi un bicchiere d'acqua fresca. Contava e ricontava le anguille e giunse ad una conclusione ineluttabile: ne mancava una.
A placcare la gallina fu zio Vincenzino che la riportò sulle piastrelle del bagno e la lego' con lo stesso cordino che io avevo slegato. Zio Fe' era tornato sorridente al tavolo verde per recuperare il tempo perso.
Appena tornata la calma gli uomini ripresero posto intorno al tavolo. Zio Fe' distribuì le carte per l'ennesima scala 40 poi alzò lentamente la testa e approfittò del silenzio che coincide con la disposizione delle carte ricevute.
Guardò a destra, dove zio Giacomo spostava re e regine nel disperato tentativo di formare almeno un tris.
Poi a sinistra, dove il signor Dimitrio rideva sotto i baffi per i due jolly sbucati come margherite tra le carte che aveva nelle mani.
E da attore consumato quale era tirò la bomba.
"È scappata un'anguilla".