Era molto timido.
Lo era a un tale punto che al mattino evitava di guardarsi allo specchio, nel timore di non riuscire ad affrontare la giornata con la faccia che si ritrovava.
Per questo viveva di una solitudine accettata anche se non felice e di proposito evitava il più possibile di accompagnarsi ad altre persone che non fossero quelle di prima necessità. E continuava ad arrossire per un nonnulla, fosse anche solo la voce del postino che al citofono gli annunciava la posta.
Faceva la spesa sempre e solo al supermercato.
Non gli riusciva di farla nei negozi sotto casa dove sarebbe stato costretto a dire quantomeno buongiorno e cosa desiderava alla persona addetta a servirlo. Conduceva il carrello con attenzione cercando di evitare ogni minima collisione con qualcuno, in modo da premunirsi da un eventuale obbligo di incrociare gli sguardi.
D’altra parte, oltre alla timidezza, gli era d’impaccio nel suo affrontare la gente anche il fatto che male sopportava parlare del tempo, delle tasse, del campionato di calcio: argomenti principali di ogni conversazione casuale. Gli sembrava di agire in un territorio di comunicazione fittizia, di scambi di opinioni senza concetti certi, obbligando a inutili pause il tempo che gli mancava a rincasare, a lavorare, a dormire.
In mezzo alla gente si sentiva a suo agio soltanto al cinema, dove tutti sembravano vivere il sogno comune che si irradiava dal grande schermo. Allora sui visi della gente che, ignara del suo osservarli, si abbandonava alle immagini, egli ritrovava la consapevolezza di far parte di un progetto comune, probabilmente oscuro e non facilmente comprensibile.
Perciò, quando si sentiva solo, faceva il biglietto alla sala vicino casa, qualunque film dessero. E lì, nella profondità della poltrona, si premurava di respirare nel ritmo dell’emissione di anidride carbonica scandito dagli altri spettatori.
Fu in un periodo di particolare depressione, che lo portò a quattro visioni quasi consecutive di “Urla dal silenzio”, che la incontrò all’ingresso del cinema. Nel tempo della breve coda davanti alla cassa gli sembrò che lei guardasse nella sua direzione, anche se poi il suo sguardo sembrava assentarsi nel percorrere lo spazio che li separava. Fu per questa impressione di non essere visto che lui trovò il coraggio di accennare un mezzo sorriso che lei, dirigendosi verso la sala, sembrò contraccambiare.
In sala cercò come sempre un posto laterale, verso il fondo, uno dei meno visibili, secondo la sua non comprovata teoria sulla visibilità delle persone all’interno di un cinema.
Non gli riuscì di intravederla lungo tutta la proiezione del film che ormai conosceva quasi a memoria. Avrebbe voluto accennare un altro sorriso, appena appena più aperto del precedente, per sancire la possibilità che davvero lei si fosse accorta di lui. Ma non si incontrarono.
Fu solo dopo l’uscita dalla sala, svoltando a destra verso il viale alberato, che se la trovò di fronte. Lei gli si buttò subito tra le braccia, sussurrandogli che stava male, che aveva bisogno di aiuto. Lui non fece in tempo a sottrarsi a quell’abbraccio stretto che quasi soffocandolo era andato a bloccare ogni uscita possibile al suo disagio. E non vi si sottrasse, perché in fin dei conti era la prima volta che qualcuno gli chiedeva aiuto e gli pareva brutto rifiutare.
Lei gli vomitò sulla giacca, che per fortuna era verde scuro, mescolando lacrime a liquidi maleodoranti. Ma l’uomo interpretò la cosa come il segnale che lei si fidava ciecamente di lui.
Così quando la ragazza staccandosi dal suo corpo gli chiese se aveva qualche spicciolo da darle, a lui, mentre si frugava nelle tasche della giacca lordata, riuscì abbastanza facile guardarla negli occhi: occhi perduti nei quali finalmente perdere se stesso.
Dal momento che fissava pochi visi non fu in grado di dire se quello che ora aveva davanti era un viso bello o brutto, ma siccome quel volto sarebbe stato comunque da allora in poi il primo termine di paragone a venire, gli piacque pensare che fosse molto bello.
Una volta presa la banconota da 20 euro lei gli fece una carezza sul viso e se ne andò.
Allora lui la seguì, con discrezione, lungo il breve tratto di strada che portava alla stazione, dove la vide parlottare con un tizio all’angolo e poi recarsi allo sportello a comprare un biglietto.
Se avesse avuto più coraggio lo avrebbe comprato anche lui un biglietto, uno qualsiasi, per una qualsivoglia località, e l’avrebbe seguita fin dentro il vagone, fin dentro lo scompartimento, fin dentro una vita che non gli riusciva di immaginare.
Si accontentò invece di veder partire il treno, invano aspettando che lei si affacciasse al finestrino a salutarlo agitando la mano.
E quando si voltò verso l’uscita, valutando la strategia da mettere in atto per dimenticarla, sul maxischermo dell’atrio vide apparire il suo volto rigato di lacrime. La gente intorno a lui aveva gli occhi fissi verso l’immagine di quell’uomo che era lui, con le sue lacrime a cadere dai 15 metri di altezza dove era situato lo schermo.
E mentre commossi da quel pianto le persone cominciavano a guardarsi intorno per trovarlo tra la folla, lui ebbe il coraggio di rimanere con lo sguardo alto, dritto nella sua giacca verde, puzzolente di vomito, finalmente aperto al mondo.