Sono in piedi sulla barca, in bilico con le gambe divaricate e i piedi incastrati nelle pinne, intirizzita nella muta fredda e umida. Cerco di stare in equilibrio nonostante la bombola d’ossigeno di tre quintali che mi pesa sulla schiena, attaccata al giubbotto gonfiabile che mi comprime le costole. La maschera che mi copre occhi e naso mi tira i capelli e mi schiaccia le guance, sollevando le labbra in un becco da anatra. Faccio qualche passo incerto verso poppa, starnazzando come una paperina indispettita. Attraverso le lenti annebbiate vedo Gabriel che mi aspetta, già in mare, mentre Sam e Cece, dietro di me, mi tengono in equilibrio e m’impartiscono ordini su come gettarmi in acqua, mettendo avanti una pinna e lasciandomi cadere nel vuoto, con una mano a tener salda la maschera sul volto e con l’altra mano ad assicurare la fascia con i pesi che mi cinge la vita. Trattengo il fiato e mi lascio cadere, pregando il cielo di sopravvivere a questa giornata.
Il giubbotto mi porta a galla e mi trovo spalmata a crocefisso di fianco a Gabriel. Si complimenta per la grazia del mio tuffo e mi aiuta a rimettermi in verticale. Mi toglie la maschera e ci scatarra dentro per poi spargere il suo stesso sputo con un dito. Sto per coprirlo d’insulti quando noto gli altri sub fare lo stesso.
«Serve a non far annebbiare le lenti sott’acqua» spiega Gabriel, sciacquando la maschera in mare e restituendomela. «Come ti senti?»
Per quanto confusa e agitata, sono rincuorata dalle numerose regole di sicurezza e di comportamento che mi sono state spiegate prima di salire in barca. Sam si getta in acqua per ultimo e chiama il gruppo a raccolta. Spiega in inglese che scenderemo pian piano, compensando ogni pochi metri per bilanciare la pressione dell’orecchio medio, adattando gradualmente il corpo alla profondità. Io e Gabriel useremo una corda, attaccata ad una boa in prossimità della barca per facilitarmi la discesa e raggiungeremo il gruppo per l’ultima parte dell’immersione. Accertatosi che tutti abbiano capito, Sam fa segno di OK con la mano, poi chiude il pugno girando il pollice verso il basso. Tutti imitano il gesto, infilano il respiratore in bocca e sgonfiano i giubbotti, scomparendo in un concerto di bollicine. Sulla superficie dell’acqua rimangono solo la mia testa e quella di Gabriel, che mi si para di fronte e mi tira verso di sé. Che voglia baciarmi? Chiudo gli occhi ma non se ne accorge, troppo intento a trafficare con la mia attrezzatura. Controlla che il giubbotto, la cintura dei pesi e i ganci siano ben chiusi, che il respiratore di emergenza e il profondimetro funzionino correttamente. Poi dà l’OK finale e m’invita a completare la stessa sequenza di controlli su di lui. Distratta dal compito, mi scordo di agitare le pinne avanti e indietro come una forsennata, scoprendo così che il giubbotto mi tiene a galla senza bisogno di dimenarmi. Mi avvicino goffamente a Gabriel e ripeto ogni suo gesto. Quando finisco il buddy check, Gabriel m’aiuta a infilare il boccaglio per una nuotata in superficie. Cerco di non pensare all’ingombrante bombola e godermi i coralli che riesco a scorgere sul fondale, una ventina di metri più in basso. Ho già fatto snorkeling altre volte e me la cavo bene con il nuoto, anche se non ho mai voluto saperne di tuffarmi di testa. Quando Gabriel m’invita a scendere sott’acqua aiutandomi con la corda, infilo il respiratore in bocca e ricaccio il magone in gola. Sono costretta a respirare con la bocca perché la maschera mi tappa il naso. Con mano tremante segnalo che sono pronta per scendere. Abbasso il mento immergendo la maschera in acqua, mentre Gabriel preme sui nostri giubbotti per sgonfiarli e permettere la discesa.
Il rumore del mondo ci abbandona e siamo avviluppati in un nuovo universo, fatto di silenzio, fluidità e meraviglia. Le mie pinne stanno appese, inutili, nel vuoto sotto di me che scompare, lasciando il posto a un intero mondo che prende vita man mano che mi avvicino. Tra me e la sabbia, laggiù in fondo, inizia un crocevia di sottili pesci argentei, lenti pescioni solitari e scuole di pesciolini colorati. Ognuno procede in una precisa direzione col proprio ritmo, senza toccare né salutare gli altri, rispettando il traffico come se si trovasse in corsie separate. Sulla destra, sono protetta da una parete di roccia, cosparsa di coralli violacei e alghe verdastre dai movimenti sinuosi. Alcuni piccolissimi pesci si avvicinano alle rocce come api ai fiori, rilasciando minuscole bollicine che salgono giocosamente verso l’alto. Seguo la traiettoria ascendente delle bolle e mi scappa un grido ovattato rivolto alle onde che hanno preso il posto delle nuvole. Il mare è il cielo. Mi sento parte di un universo sconosciuto, vivo, nascosto al mondo in superficie. Questo mondo è sempre stato qui, a due passi da me. Esiste indipendentemente dagli esseri umani, segue le sue proprie regole, immuni ai peccati, alle ambizioni e ai sensi di colpa.
Il mio corpo fluttua. Una ciocca di capelli, sfuggita alla coda, compare davanti alla maschera, ondeggiando in un ballo sensuale. Prendo in mano i fili biondi, morbidi, valutandoli come per la prima volta. Li rigiro tra le dita, osservo le mani, che ora mi appaiono per quello che sono, l’appendice sensata di un essere vivente con la giusta forma, anziché piccole e storte vergogne da nascondere con guanti e maniche bislunghe. Mi sento leggera, libera ed eccitata. Qualsiasi preoccupazione è rimasta in superficie, non ricordo nulla di ciò che è successo, nulla di quel che mi aspetta. Esisto solo io, sospesa nel blu, felice. Osservo Gabriel con occhi pieni di stelle. Lui mi sta aspettando paziente, calmo. Solo ora mi rendo conto che nella confusione del momento ho preso la sua mano e la sto stritolando. Mollo la presa. Le mie unghie lasciano solchi arrabbiati impressi sul suo palmo. Lo guardo preoccupata. Vorrei scusarmi ma invece di parole emetto solo bolle e il mio corpo comincia a capovolgersi. Finisco con le pinne in aria e la testa appesa verso il basso. Mi dimeno a destra poi a sinistra ma non riesco a raddrizzarmi, per fortuna Gabriel mi riprende la mano e così riesco a ritrovare l’equilibrio. Mi sorride con gli occhi e si tappa il naso con una mano, annuendo di imitarlo, per compensare le orecchie e proseguire nella discesa. Mi sento orgogliosa di aver avuto il coraggio e la fortuna di poter dare una sbirciatina da vicino a questo miracolo. Il profondimetro indica otto metri quando il gruppo ci raggiunge e ci uniamo alle altre tre coppie a seguito di Sam, per un giro d’esplorazione dei dintorni.
Quando il barcone giunge in vista della spiaggia, mi metto in piedi a prua insieme agli altri sub, con la pelle arrossata, la muta bagnata e i capelli intrigati, a sbracciarmi e gridare hellooo! alle figurine che si muovono a terra, piccole persone comuni che ignorano il segreto mondo fantastico di cui anche io, ora, faccio un po’ parte.