Scoppiò a piangere, anche se pareva se lo aspettasse da quando ero nato; in qualche modo aveva sviluppato gli anticorpi emotivi per la crisi più acuta, non per il dolore cronico che la assalì. Fu costretta a rassegnarsi dalle preoccupazioni dell’immediato, condendo la minestra di zucca, finocchietto e uva passa con lacrime fini a se stesse. Ero convinto che Gino e Michele, i miei due fratelli, non avrebbero apprezzato la differenza di gusto, come non avrebbero notato la mia assenza. Ero una sorta di corpo estraneo per loro. Per mio padre, poi, sarei stato solo un bicchiere di rosso in più, per alleggerire una coscienza già di suo incrostata di cattivi pensieri.
Durante il tragitto verso la fermata del bus salutai con calore Carmine, un amico. Ci scambiammo riflessioni stupide e allegre sullo stato delle rispettive squadre di calcio. Avevo fretta ma non volevo darlo a vedere, per evitare domande non superficiali o banali, cui non avrei saputo come rispondere. Ammesso che ne avessi trovato la voglia.
Un abbraccio, due bacetti finti sulle guance – bastava simularne lo schiocco secco – ed ero pronto per il mio appuntamento con la fuga.
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Ora di uscire, farsi belli nel limite del possibile, radersi, infilarsi una camicia pulita – un po’ come un abbraccio ideale di mia madre verso il figliol prodigo –. La salutai con calore.
“Esco mamma.”
“Va bene, passa da nonna che ti deve dare del pancotto avanzato.”
“Non preoccuparti, cercherò di farlo” la tranquillizzai, schioccandole un bacio sulla guancia.
Arrossì, ritornando al suo pignattare. Sapeva meglio di me che mi sarei dimenticato di farle la commissione, ma mi aveva perdonato a prescindere.
La realtà aveva dei colori molto vivi, con striature di sole che tingevano i palazzi del viale di un dorato acceso. Una tinta meravigliosa che sarebbe durata lo spazio di un tramonto. Nel frattempo pareva che tutta la natura complottasse per farmi sentire magnificamente. Fischiettai con le mani in tasca.
Fumai salutando un miscuglio di conoscenti e parenti. Mi sentivo bene.
Andai a casa di Carmine: fui interrogato al citofono.
“Chi è?”
“Sono Rino il compagno di Carmine”
“Ahh.” Disse, riconoscendomi.
Pausa di silenzio: la madre del mio amico non è mai stata un fulmine di guerra. Ma ha tante altre qualità, come una dolcezza incredibile, in parte trasferitasi al mio amico. Ero forzato a ravvivare la conversazione:
“C’è Carmine?”
“No.”
“Sapete dove sia andato?”
“È da Donato.”
“Non sapete quando ritorna?”
“Non ha lasciato detto niente.”
“Va bene, buonasera”
“Ciao”
Sarei andato da Donato con calma, al momento ero occupato a dirigermi verso Coppa Limone.
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Scendemmo in pianura, passando prima da Cagnano e poi da Sannicandro. Era un po’ come atterrare in sella a un aereo, con le mille luci della Capitanata che brillavano prevedibili, in basso. La corriera non aveva acquistato un solo passeggero, nel frattempo, ma un po’ le ero grato di ciò. Mi capitano spesso momenti in cui la solitudine cura le ferite dei miei ricordi. Ne avevo bisogno, in quel momento.
Per un po’ si alternò un mare di terra seminativa scura e fazzoletti coltivati a ulivo e vite, poi solo basse colline brulle di ricordi di frumento, che sapevano già dei primi contrafforti di bosco dell’Appennino.
Scivolai in un sonno comatoso, risvegliandomi a Napoli.
Le mie sostanze si limitavano alle piccole creste sulla spesa e qualche ruberia dal terzo cassetto del comò effettuata con destrezza sospetta. Avevo di fronte il delinquente di professione come prospettiva? Mi dicevo di no, rubavo per necessità.
Il costo del biglietto per Milano non sarei riuscito ad affrontarlo, mi risolsi quindi a cercare aiuto da zio Pasqualino, che viveva nel capoluogo campano. Lui mi avrebbe dato quella dote di viaggio che mio padre preferiva spendere in osteria.
La città mi accolse con il suo lato peggiore, una spessa coltre di grigio che si dilatava dal mare, debordando in scrosci continui cui non ero preparato. Nulla di paragonabile ai colori cui ero abituato. Percorsi a piedi i due chilometri che mi separavano dalla casa di Lino. Lo chiamavo zio ma era un amico di famiglia cui ero rimasto particolarmente affezionato.
Dal canto suo lo avevo impressionato quando a quasi tre anni gli avevo detto, in risposta al suo indicarmi una macchina, erroneamente etichettata come rossa:
“Non è rossa la macchina. È arancione.”
La mia precisione e il piglio franco l’avevano colpito. Mi ero guadagnato uno zio, anche se lontano, tornato utile quasi vent’anni dopo. Almeno così speravo, indossando panni da elemosiniere.
Il rettifilo aveva un’aria malinconica, sommerso dal grigio, ma ravvivato da una folla di bancarelle e trovai con facilità la casa di zio Lino, nobile in un vicolo stretto e pittato dai mille colori dei panni stesi ad asciugare.
Bussai.
Mi rispose proprio lui, l’accento piacevolmente deformato dagli anni passati in Campania.
“Chi è?”
“Sono Rino.”
Il portone si aprì immediatamente.
Salendo le scale lo vidi affacciarsi alla balaustra, ci salutammo con affetto complice, abbracciandoci.
“Entra, entra.”
Lo seguii all’interno di una casa dall’aria nobile, fastosa. Ci mettemmo a sedere in salotto, con il mobilio che aveva mutuato dal suo padrone la stessa sensazione di simpatia. Una console occhieggiava dall’altro lato della stanza, tra due finestre che sbattevano allegramente nascoste da tendaggi ottocenteschi.
Mio zio era un tipo interessante, con occhi vivi e penetranti, un bel viso regolare che sormontava un altezza non regolamentare. Bassino e nobile, nei modi e nei gesti: come un bassotto dal pedigree aristocratico. Il mio quasi parente preferito.
“Dimmi Rino, grazie di essermi venuto a trovare.”
“Grazie, zio.”
“Dimmi, dimmi.”
“Sono venuto in cerca di aiuto.”
“Qualche problema?” mi chiese sollevando leggermente un sopracciglio.
“I soliti, non credo che Vico sia il mio posto.”
Si alzò, versandosi del passito. Mi guardò con intensità, da dietro il bicchiere.
“Sai che se vuoi un lavoro te lo trovo qui. Ti potresti sistemare in questa casa che è sempre più sola. Più triste e sola di me stesso.”
“Zio, sei troppo gentile, ma sento di dovermi delle opportunità.”
“In questo hai ragione, ho sempre saputo che tu prima o poi saresti scappato, inseguendo i tuoi sogni.”
“Ho bisogno di farmi strada, da solo. Non a Vico né a Napoli. Grazie comunque per l’appoggio, ci contavo.”
Ci riabbracciammo.
“In cosa posso aiutarti, allora?” mi chiese trinciando un sigaro e miscelandolo con il passito.
“Potresti aiutarmi aiutandomi ad arrivare a Milano. Sono rimasto senza soldi, giusto il necessario per un panino e il biglietto di ritorno a Vico, se mi dicessi di no.”
La frase aleggiò nella stanza per qualche secondo, necessari a colmare il vuoto d’affetto che sentivo, poi lui mi rispose.
“Sai che non ci sono problemi.”