Si alzò, dirigendosi verso un comò fastoso; ne aprì un cassetto, contando alcune banconote che mise in una busta. Un vero signore, mi dissi.
“Te li restituirò.”
“Non c’è bisogno. Sono solo e vicchiarill. Sai che tutto quello che vedi è tuo: diciamo che stai prendendo un piccolo anticipo.”
“Da mo a cent’ann” dissi con un sorriso rapidamente condiviso.
Lo salutai con rinnovato affetto e mi diressi verso la stazione.
Un altro segno mancato.
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Coppa Limone è il punto che più amo di Vico. È un piccolo colle, sulla strada vecchia per Peschici, a due chilometri dal paese. Chi gli aveva dato il nome doveva difettare di fantasia, si era limitato a stigmatizzare il bosco di limoni nel nome. Ci arrivai in bicicletta, senza fretta, desideroso di cogliere gli ultimi raggi del sole nei limoni. Di sera il profumo dei fiori diventa quasi insopportabile, simile a un barile di miele che penetri direttamente dalle narici, quasi togliendo il respiro.
Io lo trovavo un eccellente posto per pensare.
La serata era fresca e, grazie al temporale del giorno prima, la vista poteva infiltrarsi tra le foglie alla ricerca del riflesso delle luci di Peschici nel mare.
Accesi una sigaretta, avvolgendomi nel suono di grilli e cicale che cantavano quello scampolo d’Estate.
Il mio primo pensiero fu per Nunziatina, ma lo scacciai in fretta come era venuto. Si riaffacciò diverse volte, ma divenni progressivamente più abile a farli evaporare. Anche se mi sentivo magnificamente, dovetti ammettere con me stesso che non avrei trovato, in quell’angolo di Paradiso, ciò che stavo cercando.
Alzai la testa al cielo, frammisto di stelle e fiori e foglie: da quell’incantevole punto di vista, non era difficile capire come fosse venuta ai Greci l’ispirazione di umanizzare le costellazioni. Occorreva una buona dose di fantasia, certo, ma si leggeva chiaramente lo scritto su quelle pagine di notte.
In lontananza un pianoforte spandeva le note del notturno 2 opera 9 di Chopin, il mio preferito. Lasciai la bicicletta e mi avvicinai in silenzio.
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Il treno era confortevole e passabilmente pulito. Avevo prenotato il posto cinquantatre del terzo scompartimento del vagone di testa. Uno scompartimento ingombro di gente e pacchi, in un’atmosfera gioiosa che contrastava con il temporale che si era scatenato da poco.
La partenza era stata ritardata di una quarantina di minuti, come mi fece notare un abitueé di quel treno. Un tipo tenebroso che non mi fece, a pelle, una grande impressione, forse per una luce strana che gli lessi negli occhi. La luce che divora lo spirito mi diceva mia nonna quando mi aveva insegnata a riconoscerla negli occhi di un folle.
“Ieri ha ritardato di oltre settanta minuti” mi fece.
“Però, le cose migliorano di giorno in giorno” gli dissi, cercando di rendermi simpatico, anche se non ne vedevo il motivo.
Non raccolse.
“Ieri settanta oggi quaranta. Di questo passo sarà puntuale nel giro di due giorni.”
Mi guardò interrogativo: avevo dissolto il blando interesse che lo spingeva a cercare un dialogo con me. Si girò verso il paesaggio che sfilava sempre più veloce.
Gli altri quattro posti erano occupati da una nonna che si dannava per tenere sotto controllo i tre nipotini, di età decrescente dai dieci ai quattro anni, che saltellavano sui sedili. Il più grande dondolò sulla reticella portabagagli, urlando come un macaco impazzito. Gli altri tre lo imitarono, almeno nei versi, rendendo lo scompartimento la brutta copia della gabbia dei primati dello zoo. La nonna lasciò perdere la divisione della parmigiana per abbrancare il nipotino e riportarlo alla ragione.
Nel frattempo avevo notato una signora anziana che era rimasta in piedi nella calca del corridoio. Non riuscii a non cederle il mio posto, condannandomi ad una notte oltre che insonne in piedi. Mi ringraziò con un sorriso che sapevo sentito.
Raccolsi la mia borsa e uscii, mentre la nonna stava offrendo delle parmigiana alla signora cui avevo ceduto il posto. Il tizio che mi stava accanto si era come dileguato, lasciando il suo bagaglio scuro. Forse era sceso a fumare una sigaretta, mi spiegai con semplicità.
Lo percepii in dissolvenza, nel mio viaggio disperato alla ricerca di una quarantina di centimetri quadri di tranquillità.
Un controllore mi passò la dritta di provare in fondo al convoglio. Lo ringraziai rassegnato e mi ci avviai.
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Era un villino decoroso, dalle mura bianche di calcio. Aveva una sua grazia nascosta, a dispetto delle dimensioni ridotte. Un pergolato lo difendeva dai raggi diretti del sole, mentre restava circondato di alberi di limone tutt’attorno.
Un pozzo, poco distante, era sormontato da un fregio in pietra di pregevole fattura. Assicurava l’acqua ad un piccolo orto di melanzane e insalata.
Mi avvicinai alla finestra, il suono del pianoforte era fortissimo, amplificato dalla tenue luce della casa. Un vento di capelli si agitava, comandando due mani agili sulla tastiera.
La amavo ancora prima di averla riconosciuta: sarebbe stata sconosciuta per sempre ai miei occhi se non fossi rinato, se non fosse arrivato un segno doloroso.
Entrai nella stanza, lei mi aspettava da sempre, immersa nel dolore di un Amore troncato per ragioni che le sfuggivano. Le ero alle spalle, baciandole l’ambra del collo che risplendeva di raggi lunari, pallidi e invidiosi.
Era bella di una bellezza che non avevo mai scoperto.
Era mia.
Nunziatina.
Ci baciammo senza parole, con le sue dita che flebilmente sfumarono la colonna sonora nelle nostre menti.
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Trovai un posto nel bagno dell’ultimo scompartimento. Lo bonificai con del sapone liquido, aspergendo il pavimento quasi stessi benedicendo il luogo.
Imbottii la tazza di carta igienica e mi sedetti, cercando di prendere sonno e, alfine, riuscendoci.
Fui svegliato da un suono infernale, nel buio di un tunnel, con le luci del vagone svanite. Uno scossone violento e mi trovai a osservare, da molto vicino – forse troppo vicino –, il lavandino, ferendomi il polso e la spalla.
Ero circondato da grida di feriti e dal silenzio della morte. Una mezz’ora dopo mi liberarono e mi avvolsero in una coperta.
Bevvi una tazza di te offertami da mani gentili, mentre intuivo l’Inferno qualche carrozza davanti.
Uscii dal tunnel, ringraziando di essere ancora vivo. Riuscii a percepire come la bomba fosse deflagrata nella terza carrozza.
Forse nel terzo scompartimento aggiunsi, dolorosamente.
Forse nel bagaglio del tizio strano.
A stroncare quel miscuglio di vite che mi avevano sfiorato per un istante, qualche ora prima. Vite cui mi sentivo legato.
Piansi.
Per la morte, per il dolore, per il segno.
Mi rigirai verso Sud, cominciando un viaggio di amara rinascita verso il posto cui ero destinato.