Stavo tornando a casa. Dopo quattro anni di lontananza rivedevo le vette innevate dei monti sulla valle. Il tempo che ho trascorso, lontano da casa, è servito per tornare a casa. Non mi ero allontanato molto, solo due montagne più avanti, ma sembrava che fossimo chissà dove. Per attraversare due montagne abbiamo impiegato quattro anni. Quando sono partito c’era la neve, così come c’è adesso, non ne posso più del freddo. Ritorno a casa giusto in tempo per trascorrere il Natale a casa con i miei. Mancano ancora due giorni, ormai sono arrivato. Sto percorrendo antichi sentieri, siamo in pochi a conoscerli. Io li ho scoperti insieme con mio nonno, quando ero piccolo lui mi portava in giro su per i monti attraverso questi sentieri. Percorsi scavati nella roccia nei secoli dalla gente del mio paese con il salire e scendere dagli alpeggi con gli scarponi pesanti, che rendevano più faticoso il cammino. La neve copre tutto e il mio passo è reso pesante dalla fatica. Il piede affonda a ogni passo ed è una tortura tirarlo fuori per poi farlo affondare di nuovo. Ci sono parole che non dovrebbero essere pronunciate, parole che il tempo ha reso prive di significato come quella che ci ripetevano ogni giorno “vinceremo”. Chi dovevamo sconfiggere per vincere e, come dovevamo vincere! Semplicemente camminando nella neve e nascondendosi nelle buche? Ci sono pensieri che non possono essere espressi. Abbiamo combattuto contro il nemico, abbiamo lottato contro il freddo, contro la fame. Tutti noi abbiamo perso qualcosa, qualcuno che era al nostro fianco, un amico, un compagno, una voce che parlava di cose che confortavano il cuore. Ancora lunga è la strada che conduce alla mia valle. Cammino sull’orlo di un crepaccio lungo la dorsale del monte dove venivo da ragazzo a sfidare il vento. Anche allora camminavo su un sentiero così piccolo da dover mettere i piedi uno dietro l’altro per camminare, non c’era lo spazio per metterli appaiati. Con o senza la neve era diventata un’abitudine. Sto facendo lo stesso cammino, ma ora non lo riconosco più, qualcosa è cambiato, non ho più l’incoscienza giovanile. Adesso ho paura di mettere un piede in fallo, non sono più il temerario di una volta. Il passo è lento. Il cappotto militare che indosso non agevola i movimenti, vorrei liberarmene, ma il gelo me lo impedisce. Eccola laggiù la valle. Il mio paese con le case coperte dalla neve. Ci sono ricordi che non si possono dimenticare, la fisionomia e la forma del proprio paese. La via principale che lo attraversa da un capo all’altro. I pochi vicoli che s’intrecciano lungo la via per rompere la furia del vento. La mia casa si trova all’estremo lato sud, là dove ora vedo un recinto di animali, ma senza bestie al suo interno. Il costone è finito e ora, finalmente, ho ritrovato il sentiero che comincia a scendere per arrivare al piano. La neve diventa più sottile, più leggera, il vento che entra da nord e percorre la valle la spazza via in turbini sempre più fitti. Non sento più i piedi, devono essersi congelati dentro il cartone degli scarponi, ma non importa, la vista di casa rafforza la volontà di arrivare e riabbracciare chi un giorno disse “ti aspetterò, ti amerò per sempre”. Ci sono promesse che non andrebbero fatte. Quattro anni non sono “per sempre”, ma sono sufficienti a conservare intatte le promesse? La neve è quasi svanita, c’è solo freddo e il vento che sbatte sulle imposte, sulle tavole sconnesse delle stalle. Mi guardo intorno e non vedo nessun riferimento al Natale che sta per arrivare. Ancora pochi passi e potrò bussare alla porta di casa mia. La strada è deserta, non passa nessuno. Il giorno sta volgendo al termine e nella penombra della sera si accende qualche luce. Candele e lumi a petrolio, sento il puzzo che esce dalle case e che si mescola con il fumo dei camini. Sento l’odore del fumo ma non porta nessun odore particolare, solo fumo di legna e aria fredda. Ci sono cose che nessuno immagina possono accadere eppure accadono; succede quando non te lo aspetti. Arrivo alla porta di casa mia, mi fermo per riprendere fiato, fisso la porta di legno di quercia che aveva fatto mio padre, la vedo ma non la ricordo così corrosa e quasi marcita, un legno vecchio e pieno di schegge. In quattro anni possibile che si sia rovinata in questo modo? Busso due colpi, poi uno poi due. Il segnale che usavo da giovane, questo era il mio modo di bussare, mia madre capiva che ero io. Ora non apre nessuno. Riprovo ancora con la bussata particolare, ancora nessuno. Busso normalmente, insisto con rabbia, tempesto la porta con pugni violenti. Finalmente qualcuno apre, appena uno spiraglio, un viso sconosciuto che mi guarda con sospetto da dietro la fessura della porta. Chi è quell’uomo? Non lo conosco, cerco di avvicinarmi per vederlo meglio in viso, ma lui si ritrae impaurito. Ha visto la mia divisa da militare. Teme qualche azione da parte mia. Cerco di rassicurarlo: «Scusa, chi sei tu ,– gli dico con voce calma e tranquilla, non voglio allarmarlo, - cosa ci fai in casa mia!» Lui mi guarda con stupore, ha sentito bene la mia domanda, ma non capisce.
«Questa non è casa tua soldato, ci abito io già da due anni, piuttosto tu come fai a dire che è casa tua.» Adesso tocca a me essere stupito. Ha detto che abita qui da due anni, allora, i miei parenti che fine hanno fatto? I genitori, la ragazza che aveva promesso fedeltà imperitura, i fratelli, dove sono? Non posso credere che siano tutti morti, chiedo:
«È la verità, prima di partire io abitavo qui con i miei genitori e i miei fratelli, sono tornato dopo quattro anni di lontananza, e non trovo più la mia famiglia: dov'è!»
Il tizio comincia a capire, fa la faccia cupa, sa qualcosa, ma ha timore a parlare, mi guarda e m’invita ad entrare,
«Vieni dentro, fa freddo qua fuori e, da quello che vedo non stai messo bene.»