La prima volta che era stata lì aveva sette anni ed era per mano a suo padre. Ai suoi occhi di bambina i soffitti affrescati, i preziosi lampadari di cristallo e tutte quelle persone vestite in maniera impeccabile, erano talmente belli da metterla quasi in soggezione. Di quella prima visita ricordava quasi tutto: i facchini che camminavano veloci come formiche operose, il lungo banco della reception con la superficie in granito rosa e il profumo pungente eppure buonissimo di quella signora dai capelli biondi e il cappotto in pelliccia, che aveva baciato suo padre su una guancia e le era stata presentata come un’amica. Ricordava anche cosa aveva pensato. Peccato che sua mamma non fosse venuta con loro, probabilmente si sarebbe sentita meno triste vedendo le signore lì presenti, avrebbe potuto parlare con qualcuna di loro, magari proprio con l’amica di papà.
Dopo quella volta, Giorgia era tornata al Grand Hotel spesso. Suo padre si occupava dei suoi affari e lei rimaneva dietro il bancone della reception, guardava le persone andare e venire e ascoltava rapita Vittorio parlare in lingue diverse.
Il giorno in cui Giorgia si era seduta dietro la scrivania dell’ufficio del direttore, era stata una festa, ma anche il primo passo per la rovina del suo matrimonio. “Sembra che sia più importante quell’albergo di me.” Si lamentava suo marito, senza ottenere niente. Perché il Grand Hotel non era semplicemente una proprietà redditizia, ma era l’oasi che l’aveva accolta durante gli anni bui della depressione di sua madre, il posto dove aveva dato il primo bacio nascosta nel parco, vicino al roseto, a un giovane turista tedesco, il luogo dove aveva imparato a conoscere suo padre, ad andare oltre la sua maschera di uomo efficiente e distaccato, scoprendo come, nelle sue contraddizioni e fragilità, la amasse. Quella era la sua vera casa.
Poi, era rimasta incinta. Ricordava che, guardando il test, aveva avuto voglia di scappare. Suo marito, invece, l’aveva abbracciata da dietro ridendo felice. Lei non poteva essere una buona mamma se pensava all’esempio avuto in casa, a quella madre che passava le giornate al buio e che si dimenticava di portarla a scuola, che difficilmente la abbracciava e che, alla fine era riuscita a lasciarla, ingoiando una scatola di tranquillanti. Giorgia era andata all’hotel fino all’ultimo. Passeggiava con il pancione nel parco, si spingeva fino alla piscina e scambiava quattro chiacchere con le clienti sdraiate sui lettini, poi rientrava e andava in ufficio. Due settimane dopo il parto aveva portato Alessio con sé. “Non è un posto adatto a un neonato. Possibile che non riesci a pensare per un po’ solo alla tua famiglia?”
Giorgia chiude gli occhi e respira. Non vuole più pensare a tutte le persone che ha lasciato indietro, per scelta o per necessità. Ora sta tornando a casa. Le ustioni sembrano divorarle la carne dall’interno, ma quel dolore è la sua giusta punizione. Entra nella hall e si volta verso la reception. Vittorio le fa un cenno e un occhiolino. Nicola, il più giovane dei facchini, le viene incontro con i suoi occhi azzurri e l’adorabile fossetta sulla guancia. Quante clienti più o meno giovani, ha conquistato! Vede Luisa, la governante che lei ha sempre chiamato “zia” gesticolare con una delle cameriere ai piani, le passa davanti la signora Rossetti con uno dei suoi giovanissimi amanti, e l’avvocato Ricci, che da almeno venti anni è cliente dell’hotel. Le viene da sorridere, mentre le lacrime scendono e dopo poco cade anche lei. L’odore del fumo è ancora lì, acre e soffocante, il resto è solo un ricordo.